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Lisbona, Portogallo, c. 1195 – Padova, 13 giugno 1231

Fernando di Buglione nasce a Lisbona. A 15 anni è novizio nel monastero di San Vincenzo, tra i Canonici Regolari di Sant’Agostino. Nel 1219, a 24 anni, viene ordinato prete. Nel 1220 giungono a Coimbra i corpi di cinque frati francescani decapitati in Marocco, dove si erano recati a predicare per ordine di Francesco d’Assisi. Ottenuto il permesso dal provinciale francescano di Spagna e dal priore agostiniano, Fernando entra nel romitorio dei Minori mutando il nome in Antonio. Invitato al Capitolo generale di Assisi, arriva con altri francescani a Santa Maria degli Angeli dove ha modo di ascoltare Francesco, ma non di conoscerlo personalmente. Per circa un anno e mezzo vive nell’eremo di Montepaolo. Su mandato dello stesso Francesco, inizierà poi a predicare in Romagna e poi nell’Italia settentrionale e in Francia. Nel 1227 diventa provinciale dell’Italia settentrionale proseguendo nell’opera di predicazione. Il 13 giugno 1231 si trova a Camposampiero e, sentondosi male, chiede di rientrare a Padova, dove vuole morire: spirerà nel convento dell’Arcella. (Avvenire)

Patronato: Affamati, oggetti smarriti, Poveri

Etimologia: Antonio = nato prima, o che fa fronte ai suoi avversari, dal greco

Emblema: Giglio, Pesce
Martirologio Romano: Memoria di sant’Antonio, sacerdote e dottore della Chiesa, che, nato in Portogallo, già canonico regolare, entrò nell’Ordine dei Minori da poco fondato, per attendere alla diffusione della fede tra le popolazioni dell’Africa, ma esercitò con molto frutto il ministero della predicazione in Italia e in Francia, attirando molti alla vera dottrina; scrisse sermoni imbevuti di dottrina e di finezza di stile e su mandato di san Francesco insegnò la teologia ai suoi confratelli, finché a Padova fece ritorno al Signore.

Il periodo trentennale (1190-1220), in cui Fernando di Martino de’ Buglioni visse, in Portogallo, coincide con il periodo a cavallo tra la fine del secolo XI e la prima parte del XII secolo. È uno spazio di tempo in cui l’intera Europa vive dei profondi cambiamenti sociali e culturali, storici e religiosi, economici e politici. Basti pensare: alla nascita dei Comuni e delle società urbane; alla trasformazione della produzione agricola; allo sviluppo del commercio specialmente via mare; alla nascente borghesia con la costituzione di notai e avvocati, che si aggiungevano alle già presenti classi dei cavalieri, dei nobili e del clero.
In questo periodo, anche l’istituzione della Chiesa vive profondi cambiamenti di rinnovamento spirituale, culturale e artistico. Ne sono un esempio: il richiamo alle origini della fede evangelica; la costruzione di “cattedrali” di gotico stile, attorno alle quali gravitavano le diverse attività sociali; il fenomeno tanto discusso delle crociate, per la conquista dei luoghi Santi; la coincidenza di grandi Papi, come Innocenzo III e Gregorio IX, sia per la difesa del potere della Chiesa e sia per l’attuazione della grande riforma ab imis della cristianità, come mostrano la nascita di ordini sia contemplativi, come i cistercensi, sia apostolici, come i Canonici regolari di Sant’Agostino, e, in particolare, gli Ordini Mendicanti dei domenicani e dei francescani.

LA VITA

La tradizione e alcune antiche fonti vogliano che i coniugi Martino de’ Buglioni e Maria Taveira, nella città di Lisbona, il 15 agosto del 1190, diedero alla luce il loro primogenito, cui al fonte battesimale posero nome Fernando. Nome di origine germanica, che etimologicamente significa “audace, coraggioso nella pace”. Della sua infanzia non si conosce nulla di certo. Come data di nascita viene riportata l’anno 1195; tuttavia, per ragioni indirette, ossia per la ratio studiorum del tempo, e per l’età canonica richiesta per ricevere l’ordine sacro, fissata intorno ai 30 anni dal diritto canonico dell’epoca, dev’essere anticipata almeno al 1190. Poiché la residenza della nobile famiglia era nei pressi della cattedrale di Lisbona, è logico pensare che abbia avuto la prima formazione culturale e spirituale dai Canonici della stessa cattedrale; e abbia seguito anche la carriera delle armi, secondo la tradizione della famiglia e della nobiltà del tempo
Difficile precisare l’occasione che abbia orientato il giovane Fernando alla scelta della vita religiosa. Nelle allegre comitive giovanili, si possono trovare compagni predisposti sia alla vita religiosa che a quella delle armi, come anche si possono sperimentare situazioni di mediocrità morale, di superficialità e di corruzione sociale; di facili amori e amorose delusioni. Tutti elementi che hanno potuto orientare Fernando, alla sua maggiore età dei 18 anni, a fare qualche scelta di esperienza personale. Come di fatto, è avvenuto tra i Canonici Regolari di Sant’Agostino, e così entrò nel monastero di San Vincenzo di Fuori, ossia ubicato fuori le mura della sua città nativa.

Tra gli agostiniani
A San Vicenzo di Fuori dimorò per circa due anni, come prova esperienziale della nuova scelta di vita, dedicata alla preghiera, allo studio e al ministero apostolico. Infastidito, però, dalle continue visite degli amici, con i quali più nulla aveva a che spartire, chiese e ottenne di trasferirsi altrove, sempre all’interno dell’Ordine, per completare la sua formazione al sacerdozio. Fernando affrontò così il suo primo grande viaggio, di circa 230 chilometri, quanti separavano Lisbona dal grande convento di Santa Cruz, in Coimbra, allora capitale del Portogallo. Il nuovo ambiente religioso era formato da una numerosa comunità di circa 70 religiosi. Il corso di studi durava almeno 8 anni. E sono stati gli anni più importanti e delicati per la formazione intellettuale e spirituale di Fernando, il quale, poteva fare affidamento non solo su valenti maestri, ma anche su una ricca e aggiornata biblioteca conventuale.
Fernando si dedicò completamente allo studio delle scienze umane, teologiche e bibliche. Impegno che gli servì anche per estraniarsi dalle tante e difficili tensioni, che attraversava la comunità religiosa. Gli anni trascorsi a Coimbra lasciarono una profonda traccia nella sua personalità, che, già per indole, era incline alla solitudine e al silenzio interiore. Per libera scelta, divenne un uomo privo di ambizioni sociali e restio a ogni ostentazione ed esibizione di sé e delle sue doti: diffidente delle polemiche e indifferente alle esteriorità di qualunque tipo. Dagli studi di Coimbra, uscì un uomo maturo ed esperto in ogni campo dello scibile umano e teologico, sostanziato di Bibbia e di tradizione patristica.

Ferdinando sacerdote
A Coimbra, Fernando ricevette l’ordine presbiteriale, che gli fu conferito nella stessa chiesa di Santa Cruz, probabilmente nel 1220, all’età circa 30 anni, secondo le norme ecclesiastiche dell’epoca. Essendo ben versato nelle Sacre Scritture e nella predicazione, gli si prospettava una buona carriera all’interno dell’Ordine. Purtroppo, due avvenimenti contribuirono a scrivere una storia diversa per il neo sacerdote agostiniano don Fernando: le difficoltà interne alla comunità e l’incontro con il francescanesimo.

Difficoltà in comunità
Al re Alfonso I succedette, sul trono del Portogallo, il figlio Sancho I, e, alla sua morte (1211), il nipote Alfonso II. Mentre Alfonso I era un re devoto e rispettoso del potere religioso; i suoi successori, invece, si intromisero nelle decisioni ecclesiastiche a vari livelli decisionali, finanche negli affari interni al monastero di Santa Cruz. Alfonso II nominò, come “priore” del locale convento, un religioso di sua fiducia, indipendentemente dagli effettivi interessi spirituali del monastero, e anche dalla scarsa capacità gestionale del relativo patrimonio. In breve tempo, le sostanze del ricchissimo monastero furono completamente sperperate, a causa di uno stile di vita non sempre coerente con lo stato religioso. A poco a poco, perciò, la comunità monastica finì per spaccarsi in due correnti: da una parte coloro che sostenevano il nuovo priore; e dall’altra coloro che desideravano condurre una vita sobria e dedita alla contemplazione e allo studio. Tra questi ultimi, si schierò anche il giovane don Fernando.

L’incontro con il francescanesimo
Nel 1219 Francesco d’Assisi approntò una spedizione missionaria alla volta del Marocco, con l’intento di convertire i musulmani d’Africa. I membri della spedizione, tre sacerdoti – Berardo, Pietro ed Ottone – e due fratelli laici – Adiuto e Accursio – transitarono anche da Coimbra. Non è certo se Don Fernando abbia conosciuto personalmente il gruppetto di questi francescani approdati in terra lusitana. Certo, ne sentì parlare, e ne subì il fascino. Dapprima, essi si portarono a Siviglia, in Spagna, dove iniziarono a predicare la fede di Cristo nelle moschee. Vennero malmenati, fatti prigionieri e condotti davanti al sultano Miramolino, e, in seguito, trasferiti in Marocco con l’ordine di non predicare più in nome di Cristo. Nonostante questo divieto, essi continuarono a predicare il Vangelo nelle loro moschee, e, per questo, furono di nuovo imprigionati e sottoposti più volte alla fustigazione. Noncuranti del pericolo, sfidarono le autorità religiose del luogo e anche la suscettibilità religiosa del popolo e, ben presto, il 16 gennaio 1220, vennero decapitati e i loro corpi furono barbaramente trucidati ed esposti all’aperto, in pasto agli uccelli. La Provvidenza ha voluto, però, che i loro resti mortali venissero recuperati, custoditi e racchiusi in due cofani d’argento e portati dall’Infante Pedro e dal suo seguito fino a Ceuta, da qui trasportati ad Algesiras, indi a Siviglia e finalmente traslati a Coimbra, dove furono collocati nella stessa chiesa agostiniana di Santa Cruz, nella quale tuttora sono custoditi e venerati. Tutto questo contribuì, da un lato, a porre il movimento francescano al centro dell’attenzione del popolo portoghese e, dall’altro, ad orientare la decisione di don Fernando ad entrare nell’Ordine francescano.

Frate Antonio
Nel settembre 1220, don Fernando lasciò le bianche vesti lanose degli agostiniani, per rivestirsi della grezza tunica di bigello e un cordiglio ai fianchi dei francescani. Per l’occasione, abbandonò anche il nome di battesimo per assumere quello di “Antonio”, in onore dell’eremita egiziano titolare del romitorio di Santo Antonio de Olivares, presso cui vivevano i francescani. Tuttavia, è simpatico ricordare che il cambio del nome in “Antonio”, nel suo etimo etrusco, conserva lo stesso significato di Fernando: “coraggioso, inestimabile che combatte per la pace”. E don Fernando lo sapeva bene!
Dopo un breve periodo di studio della regola francescana, frate Antonio parte alla volta del Marocco. L’itinerario da lui seguito, per via terra e via mare, è sconosciuto. Molto probabilmente, insieme a qualche confratello, sarà arrivato nel territorio del sultano Miramolino, e ospitato in casa di qualche cristiano, ivi residente per ragioni di commercio. Frate Antonio non poté dare corso al suo progetto di predicazione, perché fortemente condizionato da una malattia tropicale, forse, la malaria, provocata certamente da una vita di penitenza e dalle scarse norme d’igiene. Male che lo accompagnerà per tutta la vita. Per recuperare la salute, decise di ritornare in patria, senza però abbandonare l’ideale missionario e neppure il suo tacito desiderio di martirio.
Fu costretto a lasciare il Marocco, per riprendere la via del ritorno. Ma, a causa di una tempesta, la nave venne trascinata sulle coste della Sicilia, nei pressi di Milazzo (Messina). I due Frati furono soccorsi da alcuni pescatori, e portati nel vicino convento francescano della zona. Qui, frate Antonio apprese che, in occasione della Pentecoste, Francesco aveva convocato tutti i suoi frati per il Capitolo Generale, da celebrarsi in Assisi, dal 30 maggio all’8 giugno del 1221. Così, nella primavera del 1221, frate Antonio insieme ai frati di Messina cominciarono a risalire l’Italia a piedi, per raggiungere Assisi.
Frate Antonio era uno sconosciuto fraticello straniero, giovane e senza incarichi di governo, fisicamente provato. La sua convalescenza siciliana durò circa due mesi. Ad Assisi, rimase ugualmente sconosciuto a tutti, perché entrato solo da pochi mesi nell’Ordine; passò i nove giorni dell’adunanza appartato e solingo, immerso nell’osservazione e nella riflessione. Era uno dei tanti, nulla aveva che lo distinguesse. Al momento del commiato non fu preso in considerazione da nessuno dei “ministri”. Quando furono partiti quasi tutti per le rispettive residenze, frate Antonio fu notato da frate Graziano, ministro provinciale della Romagna. Saputo che il giovane frate era anche sacerdote, lo pregò di seguirlo.

Eremita a Montepaolo
In compagnia di fra Graziano da Bagnacavallo e di altri confratelli romagnoli, frate Antonio arrivò a Montepaolo (Forlì) nel giugno 1221. Le giornate nell’eremo trascorrevano in preghiera, mediazione, lavoro e umili servizi. Durante questo periodo, frate Antonio poté confrontare meno la dottrina che l’esperienza della sua nuova vocazione francescana, approfondire l’esperienza missionaria bruscamente interrotta, rinvigorire l’impegno ascetico, affinarsi nella contemplazione, esercitarsi nel nuovo carisma. Data la visione prevalentemente sacrale e di prestigio, in cui era guardata la figura del sacerdote, i confratelli trattavano frate Antonio con grande venerazione e profondo rispetto e sincera stima, perché spezzava loro il Pane celeste. Un giorno, avendo visto che uno dei compagni aveva trasformato una grotta in una cella solitaria, frate Antonio gli chiese con insistenza che la cedesse a lui. Il buon confratello accondiscese all’appassionato desiderio del giovane sacerdote. Così, frate Antonio si ritirava spesso in tale grotta, per gustare la presenza di Dio nella contemplazione solitaria.

L’ora della chiamata
Nel settembre 1222, si tenevano a Forlì le ordinazioni sacerdotali di religiosi domenicani e francescani. Prima che il drappello degli ordinandi si recasse nella cattedrale cittadina per ricevere gli ordini sacri dal vescovo Alberto, si era soliti rivolgere un discorso esortativo ai candidati e a tutti gli ospiti. Tra coloro che furono interpellati a tale compito, nessuno volle accettare la delicata responsabilità: né domenicani né francescani. Intanto, il momento della cerimonia sacra stava per cominciare, e tutti ricusarono d’improvvisare l’esortazione di circostanza. Il superiore di Montepaolo, che conosceva bene le doti di frate Antonio, lo pregò di prendere la parola. Così, frate Antonio ebbe l’occasione di rivelare la sua profonda cultura biblica e la salda dottrina teologica con la nuova spiritualità. Commozione, esultanza e, soprattutto, stupore e ammirazione invase l’intero uditorio, che osannava al Signore, per il dono manifestato. La sacra ordinazione si svolse con grande gioia; e gli occhi di molti furono captati dalla rivelazione del neo predicatore.

Antonio predicatore
Dopo l’esperienza rivelativa di Forlì, iniziò per frate Antonio la nuova missione di predicatore. Parlava con la gente, ne condivideva l’esistenza umile e tormentata, alternando l’impegno della catechesi con l’opera pacificatrice; insegnava la scienza sacra ai confratelli e attendeva alle confessioni, si confrontava personalmente o in pubblico con i sostenitori di eresie. La Romagna, all’epoca, era una regione funestata da una guerriglia civile endemica: le fazioni, maggiori e minori, avvelenavano le città e i clan familiari, disgregando le strutture comunali e seminando dovunque sospetti, congiure, colpi di mano, vendette. Non bastava questa situazione civile, ma anche sul piano religioso si pativa la calamità delle sette, prima fra tutte, nelle sue diverse ramificazioni, quella dei Catari. La Chiesa reagiva scarsamente e male, a causa della sua poco credibilità esemplativa e per la mediocrità della forza dottrinale e spirituale dei suoi figli. Buon gioco avevano dunque gli eretici che diffondevano teorie distorte e dubbi pericolosi. Proprio a Rimini ebbe luogo l’episodio della mula. Tenuta a digiuno per tre giorni, la mula andò verso l’Eucaristia presentata nell’ostensorio da frate Antonio e non verso la fresca biada offerta dall’eretico, il quale poi si convertì.

“Antonio, mio vescovo”
Francesco d’Assisi voleva che i suoi frati si dedicassero, con prudenza, allo studio della teologia. Ecco, come “ordinò” a frate Antonio di insegnarla: “Placet mihi quod sacram theologiam legas fratribus, dummodo inter huius studium orationis et devotionis spiritum non estinguas, sicut in regula continetur”: “Approvo che tu insegni sacra teologia ai fratelli, purché in questo studio tu non spenga lo spirito di orazione e devozione, come è stabilito nella Regola” (in K. Esser, Gli scritti di S. Francesco d’Assisi, Padova 1982, p. 183). In questo testo, Raoul Manselli scorge un valore normativo e un “significato essenziale per tutta la storia dell’Ordine” (San Francesco, Roma 1980, pp. 280-288), perché esprime il fondamento della prima “ratio studiorum del francescano” (G. Lauriola, Introduzione a Francesco d’Assisi, Noci 1986, p. 146).

Il periodo padovano
A Padova, frate Antonio fece un paio di soggiorni ravvicinati relativamente brevi: il primo, fra il 1229 e il 1230; il secondo, fra il 1230 e il 1231. Durante quest’ultimo periodo, sorella morte lo chiamò precocemente. Nella sua patria di elezione, frate Antonio non trascorse che appena un anno, sommando i due momenti della sua permanenza. Padova gli servì come scriptorium dei suoi scritti, perché trovò, forse, una ricca biblioteca e dei validi collaboratori nella stesura dei testi. I Sermones di frate Antonio vanno considerati come l’opera letteraria di carattere religioso più notevole, compilata in Padova durante l’epoca medievale. Frate Antonio aveva un debole per i centri culturali. Difatti, come prima aveva prediletto le università di Bologna, Montpellier, Tolosa, Vercelli, così privilegiò Padova per la sua università. Dire università era soprattutto sinonimo di concentrazione di elementi giovanili. E frate Antonio era un esperto “pescatore di giovani”.

La morte
Nella tarda primavera del 1231, frate Antonio fu colto da malore. Deposto su un carro trainato da buoi venne trasportato dall’eremo di Camposampiero a Padova, dove aveva chiesto di poter morire. Giunto però all’Arcella, un borgo della periferia della città, la morte lo colse. Spirò mormorando: “Vedo il mio Signore”. Era il 13 giugno. Aveva 41 anni! Venne sepolto a Padova, nella chiesetta di santa Maria Mater Domini, il rifugio spirituale del Santo nei periodi di intensa attività apostolica. Prima di un anno dalla morte, la fama dei tanti prodigi compiuti, convinse Gregorio IX a bruciare le tappe del processo canonico e a proclamarlo Santo, il 30 maggio 1232, a Spoleto.

LE OPERE

La redazione dei Sermones
Nell’ultimo periodo della sua vita, frate Antonio mise per iscritto due cicli di Sermoni, intitolati rispettivamente Sermoni domenicali e Sermoni Mariani e dei Santi, destinati ai predicatori e agli insegnanti degli studi teologici dell’Ordine francescano. In questi Sermoni, egli commenta i testi della Scrittura presentati dalla Liturgia, utilizzando l’interpretazione patristico-medievale dei quattro sensi, quello letterale o storico, quello allegorico o cristologico, quello tropologico o morale, e quello anagogico, o escatologico. Questi sensi, nella visione odierna, sono dimensioni dell’unico senso della Sacra Scrittura e che è giusto interpretarla cercando le quattro dimensioni della sua parola. Questi Sermoni sono testi teologico-omiletici, che riecheggiano la predicazione viva, in cui Antonio propone un vero e proprio itinerario di vita cristiana. La recente edizione italiana, a cura P. Giordano Tollardo, (Sant’Antonio di Padova, I Sermoni, Ed. Messaggero, Padova 1994, pp. 1260), ha reso più facile la conoscenza dottrinale del Santo.

Il Pensiero
Data la diversità delle tematiche trattate nei Sermoni, è difficile tracciare una sintesi; tuttavia, per dare un’idea del pensiero antoniano, è sufficiente accennare a qualche argomento specifico, come per esempio, a quello della Vergine Maria, a cui dedica 6 “sermoni” – (2 all’Annunciazione, 2 alla Purificazione, 1 alla Natività e 1 all’Assunzione) – dai quali si possono evidenziare alcuni aspetti abbastanza significativi. Certamente, i riferimenti non sono esposti in modo sistematico o in forma dimostrativa, bensì in maniera affermativa e sparsi a secondo le feste liturgiche commentate. Sembra interessante accennare almeno ad alcuni aspetti della mariologia antoniana e al suo naturale fondamento, che in seguito troveranno sviluppo nella storia della teologia mariana, e applicazione pastorale nella vita della Chiesa.

L’Immacolata Concezione
Per quanto riguarda la Vergine Immacolata, pur non essendo ancora diffusa la specifica liturgia, tuttavia si trovano nei “sermoni” diverse affermazioni in suo onore, dalle quali si può dedurre un certo orientamento verso il privilegio mariano. Nel II sermone dell’Annunciazione, commentando Isaia (16,1), scrive: “la beata Vergine è chiamata ‘pietra del deserto’: ‘pietra’, perché impossibile a essere solcata dall’aratro; e il diavolo, che coltiva le ombre, non poté trovare passaggio in essa, ossia traccia di colpa; ‘del deserto’, perché non seminata da seme umano, ma resa feconda per opera dello Spirito Santo” (n. 8, p. 1086); e nel sermone della Domenica di quinquagesima, annota: “Il Padre rivestì il suo Figlio Gesù di bianca stola, cioè di carne monda da ogni peccato, che ricevette dalla Vergine Immacolata” (n. 16, p. 62); e ancora, nel sermone della Domenica III di quaresima, precisa: “la gloriosa Vergine fu prevenuta e ricolma di una grazia singolare, per poter avere nel suo seno proprio colui che, fin dall’eternità, fu il Signore dell’universo” (n. 2, p. 151).

L’Assunzione al cielo di Maria
Per riguarda, invece, la glorificazione di Maria, nel II sermone dell’Assunzione, scrive: “Io glorificherò il ‘luogo dove ho posto i miei piedi’ (Is 60,13). Il luogo dove il Signore pose i suoi piedi, cioè la sua umanità, fu la beata Vergine Maria, dalla quale prese l’umana carne. Questo luogo, oggi, è stato dal Signore glorificato, perché ha esaltato Maria al di sopra dei cori degli angeli. Da ciò si rende manifesto che la Vergine fu assunta in cielo anche con il corpo, che fu il luogo dove pose i piedi il Signore. A questo mistero alludeva il salmista, quando cantava: ‘Alzati, Signore, verso il luogo del tuo riposo, tu e l’arca della tua potenza’ (Sal 132, 8). Il Signore è risorto quando ascese alla destra del Padre; è risorta anche l’Arca [Maria], dove egli ha riposato, quando la Vergine Maria fu assunta al talamo celeste. O inestimabile dignità di Maria, o ineffabile sublimità inenarrabile di grazia, o imperscrutabile abisso di misericordia!… Veramente superiore a ogni grazia fu quella di Maria, che ebbe un Figlio in comune con l’Eterno Padre, e, quindi, oggi ha meritato di essere coronata in cielo” (nn. 2-5, pp. 1110-1115).
Per questa interpretazione, è ricordato da Pio XII, nella bolla dogmatica Munificentissimus Deus (1 novembre 1950), con queste parole: “Tra i sacri scrittori che, servendosi di testi scritturistici o di similitudini ed analogie, illustrarono e confermarono la pia sentenza dell’assunzione, occupa un posto speciale il dottore evangelico, s. Antonio da Padova. Nella festa dell’Assunzione, commentando le parole d’Isaia: ‘Glorificherò il luogo dove posano i miei piedi’ (Is 60, 13), affermò con sicurezza che il divino Redentore ha glorificato in modo eccelso la sua Madre dilettissima, dalla quale aveva preso umana carne. ‘Con ciò si ha chiaramente – dice – che la beata Vergine è stata assunta col corpo, in cui fu il luogo dei piedi del Signore’. Perciò scrive il Salmista: ‘Vieni, o Signore, nel tuo riposo, tu e l’Arca della tua santificazione’. Come Gesù Cristo, dice il santo, risorse dalla sconfitta morte e salì alla destra del Padre suo, così ‘risorse anche dall’Arca della sua santificazione, poiché in questo giorno la Vergine Madre fu assunta al talamo celeste’“.

La Madre di Dio
Se, a questi riferimenti mariani, si aggiungono anche alcuni sulla maternità divina e sulla mediazione, si ha un quadro più completo della mariologia antoniana. Nel I sermone dell’Annunciazione, scrive: “Maria rifulse veramente come il sole e fu l’arcobaleno splendente nel concepimento del Figlio di Dio. L’arcobaleno si forma con il sole che entra in una nuvola…E in questo giorno, il Figlio di Dio, sole di giustizia, entrò nella nube, cioè nel seno della Vergine gloriosa, e questa diventò quasi un arcobaleno, segno dell’alleanza, della pace e della riconciliazione…’Il mio arco sulle nubi sarà il segno dell’alleanza tra me e la terra’. E di quest’arco dice l’Ecclesiastico: ‘Osserva l’arcobaleno e benedici colui che l’ha fatto: è bellissimo nel suo splendore. Avvolge il cielo con un cerchio di gloria’. Contempla l’arcobaleno, considera cioè la bellezza, la santità, la dignità della beata Vergine Maria…È veramente stupenda nello splendore della sua santità, sopra tutte le figlie di Dio. Ella avvolse il cielo, cioè circondò la divinità con un cerchio di gloria, con la sua gloriosa umanità” (n. 6, pp. 1084-1085).
Nel III sermone sul Natale del Signore, scrive: “Maria diede alla luce il figlio. Quale figlio? Il Figlio di Dio, Dio lui stesso. O donna, più felice di ogni altra, che avesti il Figlio in comune con Dio Padre!… Il Padre gli ha dato la divinità, la Madre l’umanità; il Padre la maestà, la Madre l’infermità. Partorì il suo Figlio, cioè l’Emanuele, che è quanto dire: Dio-con-noi” (n. 6, p. 940); mentre, nel sermone sull’Assunzione: “Quanto grande è la dignità della Vergine gloriosa! Ella meritò di essere la madre di colui che è il ‘firmamento’ e la bellezza degli angeli… Ella fu il soglio di questa gloriosa altezza di Cristo fin da principio, cioè fu predestinata ad essere Madre di Dio con potenza [dalla costituzione del mondo], secondo lo spirito di santificazione” (n. 1-2, pp. 1108-1109); e ancora nel sermone della III domenica di quaresima, aggiunge: “Veramente beato è questo seno, circondato di gigli, che portò te, Dio e Figlio di Dio, Signore degli angeli, Creatore del cielo e della terra, Redentore del mondo! La Figlia ha portato il Padre, la Vergine poverella ha portato il Figlio. O cherubini e serafini, o angeli ed arcangeli, in umile atteggiamento e con capo chino, adorate il tempio del Figlio di Dio, il sacrario dello Spirito santo, il grembo beato adorno di gigli, dicendo: Beato il seno che ti ha portato! E voi o mortali, figli di Adamo, a cui fu fatta questa grazia e concessa questa prerogativa, animati di fede, compunti nel cuore, prostrati a terra, adorate anche voi il trono d’avorio eccelso elevato dal vero Salomone [il Signore] e dite: Beato il grembo che ti ha portato!” (nn. 1-3, pp. 151-152).

La celeste mediatrice
Tra i titoli più diffusi della mariologia antoniana, quelli sulla universale mediazione godono di una particolare preferenza. Intorno al questo tema, frate Antonio ha delle affermazioni e delle immagini simpatiche e suggestive a un tempo, che contribuiscono alla sua diffusione nel popolo di Dio con molta incisività. Nel sermone dell’Annunciazione della beata Vergine Maria, scrive: “La Vergine Maria è nostra mediatrice, perché ha ha ristabilito la pace tra Dio e il peccatore… è lei il segno della pace e dell’alleanza…e l’ulivo della misericordia” (n. 11, p. 1090); mentre nel sermone della Domenica IV di avvento: “La beata Maria, essendo una valle, fu colmata di grazia, e della sua pienezza di grazia noi tutti abbiamo ricevuto”; e nel II sermone dell’Annunciazione della beata Vergine Maria, commentando Luca (1, 35), precisa: “Come da un vaso troppo pieno si riversa sulla terra qualche goccia, così Maria fu ripiena della grazia divina e fecondata dallo Spirito Santo, perché cadesse su di noi lo stillicidio delle sue grazie” (n. 8, p. 135); e poco prima aveva detto: “Maria diede al mondo l’autore di tutta la grazia” (n. 4, p. 132).
Nel sermone dell’Annunciazione della beata Vergine Maria, scrive: “La Vergine Maria è la porta del cielo, la porta del paradiso, sulla quale il vero Salomone [Cristo] ha scolpito i cherubini, che rappresentano la vita angelica e la pienezza della carità; le palme, che indicano la vittoria sul nemico…; i bassorilievi di fiori, che sono le preziose cesellature raffiguranti l’umiltà e la verginità. Tutto questo è stato scolpito nella beata Vergine Maria dalla mano della Sapienza” (n. 1, p. 1080-1081); mentre nel II sermone dell’Annunciazione, precisa: “Maria è la stella del mare, perché siamo ancora in mezzo al mare, siamo sbattuti dai flutti, sommersi dalla tempesta. Invochiamo la stella del mare, per arrivare con il suo aiuto al porto della salvezza. È lei che salva dalla tempesta coloro che la invocano, che mostra la via, che guida al porto” (n. 14, p. 1139); mentre nel sermone della Domenica I dopo Natale, aggiunge: “Chi è privo di questa stella è cieco e cammina a tentoni: la sua nave sarà infranta dalla tempesta ed egli sarà travolto dalle onde” (n. 4, p. 985).
Ancora nel sermone dell’Annunciazione della beata Vergine Maria, scrive: “L’iride risplende per una posizione del sole che pervade le nuvole…Così il Figlio di Dio, sole di giustizia, penetrando la nuvola, cioè la Vergine gloriosa, la rese come arcobaleno, segno… d’alleanza tra Dio e i peccatori” (n, 6, p. 1084). E nel II sermone della Purificazione della beata Vergine Maria: “In principio il Signore Dio piantò un giardino di delizie…e vi pose l’uomo a custodirlo e a coltivarlo. L’uomo, però, lo coltivò male e male lo custodì. Era necessario che il Signore piantasse un altro giardino, di gran lungo migliore, cioè la beata Vergine Maria, alla quale ritornassero gli esuli del primo giardino. In questo nuovo giardino fu posto il secondo Adamo [Cristo Gesù], che lo coltivò e lo custodì” (n. 1, p. 1097). E, infine, nel II sermone dell’Annunciazione della beata Vergine Maria: “Orsù, dunque, Signora nostra e nostra speranza, noi ti supplichiamo, affinché illumini le nostre menti con lo splendore della tua grazia, per purificarle con il candore della tua illibatezza, per infiammarle col calore della presenza, per riconciliarle col Figlio tuo, onde possiamo sollevarci allo splendore della tua gloria. Ce lo conceda colui che ha voluto prendere da te il suo glorioso corpo e abitare per nove mesi nel tuo grembo” (n. 6, p. 1085).

Fondamento cristocentrico della mariologia
A fondamento di questi sparsi pensieri mariani, c’è sempre il mistero di Cristo, che per Antonio costituisce il centro della vita e del pensiero, dell’azione e della predicazione. In questo, sembra un antesignano dell’inizio del cristocentrismo, tratto caratteristico della teologia francescana, che, poi, in Giovanni Duns Scoto, troverà la sua perfetta realizzazione e sistemazione. Per Antonio, non solo i misteri della Natività sono un punto centrale dell’amore di Cristo per l’umanità, ma anche la visione del Crocifisso ispirano pensieri di riconoscenza verso Dio e di stima per la dignità della persona umana.
Nel sermone sulla Invenzione della santa Croce, scrive: “Sul legno della Croce fu elevata l’umanità di Cristo, come segno della nostra salvezza. Alziamo, dunque, i nostri occhi e ‘guardiamo all’autore della nostra salvezza, Cristo Gesù’. Consideriamo il nostro Signore sospeso alla croce, trapassato dai chiodi… Come l’anima è la vita del corpo, [così] Cristo è la vita dell’anima. Ecco, dunque, la tua vita è sospesa [alla croce]! Non senti un fremito di dolore e di compassione, pensando a ciò? Se egli è la tua vita, come puoi frenarti e non essere pronto ad affrontare il carcere e la morte per lui, come Pietro e Tommaso? Egli è sospeso davanti a te, per muoverti a compassione verso di lui, esclamando con il profeta: ‘O voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore’ (Lam 1, 12) […]. Cristo, che è la tua vita, sta appeso davanti a te, perché tu guardi te stesso nella croce, come in uno specchio. Nella croce potrai constatare che le tue ferite sono veramente mortali e che nessuna medicina avrebbe potuto guarirle, se non il sangue del Figlio di Dio. Se osserverai attentamente, lì potrai scoprire quanto grande è la tua dignità umana e quanto sei prezioso […]. Mai un uomo può scoprire la sua dignità che allo specchio della Croce […]. Vedere e credere è la stessa cosa, perché quanto credi, tanto vedi. Perciò, credi con fede viva alla tua vita, per vivere con lui che è Vita, nei secoli eterni” (n. 7, pp. 1192-1194).
Significative sono anche le immagini con cui frate Antonio spiega la centralità di Cristo nella vita. Nella IV domenica dopo Pasqua, scrive: “Il cerchio, così chiamato perché corre all’intorno, raffigura Cristo Gesù, che è ritornato da dove era partito” (n. 3, p. 287); e nel sermone dell’Ottava di pasqua, afferma: “Gesù sta al centro di ogni cuore; sta al centro perché da lui, come dal centro, tutti i raggi della grazia si irradiano verso di noi che camminiamo all’intorno” (n. 6, p. 230); e precisa: “Il cerchio raffigura Cristo Gesù che, come il cerchio, è ritornato da dove era partito: è partito dal Padre […] ed è ritornato al trono del Padre […]. Il cerchio… è anche la croce di Cristo Gesù… che ha perforato il diavolo e liberato il genere umano. E, quindi, conclusa l’opera redentrice, Cristo dice: Vado dal Padre che mi ha mandato” (n. 3, p. 288).

Dottore della Chiesa
Tra i contemporanei e nelle generazioni immediatamente successive, frate Antonio fu ritenuto maestro di sapienza cristiana, biblista impareggiabile, autore di opere insigni. Uno storico dice che Antonio possedeva un talento così eminente, da poter servirsi della memoria al posto dei libri, e che si sapeva esprimere con un’abbondante grazia di linguaggio mistico. La profondità insospettata del suo parlare accresceva lo stupore dell’uditorio. Anche la curia romana ebbe modo di ascoltarlo e lo stesso Gregorio IX lo chiamò Arca del Testamento.
Nelle celebrazioni due volte centenarie, il VII della morte (1231-1931) e il VII della canonizzazione (1232-1932), l’Ordine Francescano ha richiesto il riconoscimento del titolo di Dottore, già riconosciuto da Gregorio IX fin dal giorno della sua canonizzazione (30 maggio 1232), come ricorda la stessa Lettera Apostolica Esulta, Lusitania felix di Pio XII (16 gennaio 1946), che conferma a Sant’Antonio di Padova il titolo di “Dottore della Chiesa universale”, con l’appellativo di Doctor Evangelicus.
Del Pontefice Gregorio IX, si ricordano due episodi: uno riguarda la testimonianza di aver chiamato frate Antonio ancora vivente “Arca del Testamento” e “Scrigno delle Scritture”; e l’altro l’intonazione dell’antifona dei Dottori della Chiesa – O Doctor optime, Ecclesiae sanctae lumen; beate Antoni, divinae legis amator, deprecare pro nobis Filium Dei [O Dottore della Chiesa, beato Antonio, amatore della divina parola, prega per noi il Figlio di Dio] – in onore del novello Santo (30 maggio 1232). E questo fu il motivo per cui nella Liturgia si cominciò a tributargli il culto proprio dei Dottori; e anche l’arte cominciò a riprodurre il Santo con un libro aperto in mano.
L’opera, cui la critica ha riconosciuto il merito di essere stato “un prezioso contributo per la causa del Dottorato antoniano” e “una fonte di consultazione di tutti gli studiosi del Santo”, è certamente La figura intellettuale di S. Antonio di Padova. I suoi scritti. La sua dottrina (Roma 1934), di D. Scaramuzzi. Il saggio consta di due parti: l’una, di carattere storico-critico, affronta le questioni preliminari inerenti alla collocazione storica e culturale di Antonio, all’autenticità e genuinità degli scritti, all’originalità della dottrina e all’influsso esercitato sui contemporanei e sui posteri; l’altra, di carattere dottrinale, è una ricostruzione sistematica di testi in latino, scelti con gusto e perspicacia, contenenti le principali tesi teologiche, morali mistiche e religiose, tratte dagli scritti del Santo, così da risultare una particolare Antologia, molto utile per lo studioso. Gli argomenti principali riguardano: Dio, l’uomo, Cristo Gesù, la Vergine, la vita morale e soprannaturale, l’al di là.

IL CULTO

Sant’Antonio da Padova è tra i santi il più noto e amato nel mondo. Milioni di pellegrini e devoti, provenienti da ogni parte della terra, visitano ogni anno la sua Basilica a Padova. Al termine dei festosi e solenni funerali del 17 giugno 1231, il corpo del Santo venne sepolto nella chiesetta Santa Maria Mater Domini del conventino francescano della città; probabilmente non interrato, ma anzi un po’ sopraelevato, in maniera che i devoti, sempre più frequenti e numerosi, potessero vederne e toccarne l’arca-tomba. Non vi è chiesa al mondo che non abbia un altare, un dipinto, una statua, un affresco, una nicchia a Lui dedicati. Per non parlare poi delle piccole statue e dei santini presenti in vari luoghi, prime fra tutte le abitazioni private. Nel 1920 Benedetto XV elegge Sant’Antonio da Padova “patrono particolare e protettore della Custodia di Terra Santa”. Sant’Antonio è patrono anche del Portogallo, del Brasile, e di numerose città in Italia, Spagna e Stati Uniti.

Traslazioni
La più importante traslazione avvenne l’8 aprile del 1263, quando, terminata una fase decisiva della costruzione della nuova chiesa, si procedette a trasferirvi il venerato corpo. San Bonaventura da Bagnoregio, allora Ministro generale dei francescani, presiedette la cerimonia. Nell’esaminare i sacri resti, si accorse che la lingua del Santo era rimasta incorrotta. A tale scoperta esclamò: “O lingua benedetta, che sempre hai benedetto il Signore e l’hai fatto benedire dagli altri, ora si manifestano a tutti i grandi meriti che hai acquistato presso Dio”. In quell’occasione, l’arca con i resti mortali del Santo venne collocata probabilmente al centro del transetto, sotto l’attuale cupola conica (dell’Angelo), davanti al presbiterio. Un’altra traslazione avvenne nel 1310, allorché ultimata la nuova cappella dedicata al Santo, all’estremità sinistra del transetto, le sacre spoglie furono solennemente trasportate. Una terza Traslazione, tra il 14 o 15 febbraio del 1350, il Cardinale Guido de Boulogne-sur-Mer, Legato Pontificio, si recò a Padova per adempiere un voto, essendo stato guarito dalla peste, e donò un prezioso reliquiario nel quale, lui stesso sistemò l’osso mandibolare.

Ricognizione
Un’importante indagine sui resti del Santo fu iniziata il 6 gennaio 1981, in occasione del 750° anniversario della morte di sant’Antonio. Una commissione religiosa e una commissione tecnico-scientifica, entrambe nominate dalla Santa Sede, curarono l’apertura della tomba ed esaminarono quanto vi rinvennero. Rimossa una lastra laterale di marmo verde, si trovò una grande cassa di legno d’abete, avvolta in preziosi drappi. Essa conteneva un’altra cassa più piccola in legno, dentro cui in diversi involti, sistemati in tre comparti, avvolti in drappi preziosi e con scritte indicative, c’erano: lo scheletro, ad eccezione del mento, dell’avambraccio sinistro e di altre parti minori (da secoli conservate in altri reliquiari particolari); la tonaca; e la “massa corporis”, cioè le ceneri. I resti di Sant’Antonio furono poi ricomposti in un’urna di cristallo ed esposti, dalla sera del 31 gennaio alla sera della domenica 1° marzo 1981, alla venerazione dei devoti. Al termine dell’ostensione, l’urna di cristallo venne rinchiusa in una cassa di rovere e riposta nella secolare tomba-altare della cappella dedicata a sant’Antonio. Alcuni reperti, in particolare la tonaca e le reliquie dell’apparato vocale, sono tuttora esposti nella Cappella delle Reliquie.

Ostensione del 2010
A causa dei lavori di restauro del 2008, le Spoglie di Sant’Antonio sono state esposte, nella Cappella delle Reliquie della Basilica del Santo, alla venerazione dei fedeli dal 15 al 20 febbraio del 2010, prima di essere riposte di nuovo nella Cappella dell’Arca.

Autore: P. Giovanni Lauriola ofm

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