Sono Fabiola, ho 26 anni, sono nata a L’Aquila, e sono una delle tante infermiere impegnate nell’emergenza Covid a Mestre, Venezia! Ed oggi, dopo 6 mesi, posso finalmente riabbracciare la mia famiglia! Scrivo questa lettera per rendervi partecipi della mia personale esperienza, in prima linea nel reparto covid, ma soprattutto lontano dalla mia famiglia.
Quel 17 marzo era un martedì, il giorno prima del mio compleanno, ed una semplice telefonata, ci annunció che da lì a poco ci sarebbe stata una riunione. Quella riunione ha avuto il potere di segnare un prima e un dopo nelle nostre vite, catapultandoci in una dimensione parallela terribile, una realtà sanitaria tragica, inimmaginata e inimmaginabile. E così abbiamo fatto quello che ci è stato chiesto di fare. In poche ore abbiamo trasformato un reparto, riorganizzato! Non abbiamo battuto ciglio e abbiamo indossato tute, mascherine, guanti, soprascarpe, scafandro. Senza sapere bene cosa stavamo facendo. Senza sapere che sarebbero diventati la nostra seconda pelle. Abbiamo iniziato così la nostra avventura, con le tute addosso per ore che sembravano interminabili, senza poter andare neanche in bagno, con le mascherine una sopra l’altra, doppi guanti, tripli, quadrupli, con la bocca sempre impastata, non si poteva né bere né mangiare, con la fatica e il sudore che non potevi neanche asciugartelo. Mentre tutto scorreva, pazienti che arrivavano, Lombardia che chiudevano, e poi le altre regioni…il mio pensiero era fisso lì, alla mia famiglia, a 600km di distanza e a quando avrei potuto riabbracciarli. Abbiamo lottato tanto, contro qualcosa di nuovo e sconosciuto; la paura di essere contagiati è stata altissima e, lo ammetto, più volte ho avuto paura di morire! Fisso in testa avevo il pensiero che se fossi stata contagiata non avrei più rivisto la mia famiglia! Se fuori il silenzio era triste e surreale, dentro era un inferno fatto di dolore, fatica, lacrime e senso di inadeguatezza. Noi infermieri giravamo da una stanza all’altra come trottole impazzite, cercando di organizzare mentalmente ogni cosa prima di passare all’azione. Abbiamo imparato che ogni gesto deve essere calcolato in anticipo per evitare dispersioni di energia preziosa, dovevamo averne per dieci ore di fila, bisognava essere lucidi. Sui volti dei pazienti c’era preoccupazione, paura. La stessa che avevamo noi. Ci riconoscevano attraverso gli occhi! Un giorno, entrando in una stanza di degenza, un paziente mi ha accolto dicendomi: “Faby buongiorno, non posso sbagliarmi guardando i tuoi occhi meravigliosi che solo con uno sguardo mostrano il tuo sorriso”. Ma il pensiero lì dentro, va ben oltre, va a chi hai lasciato a casa: a mamma, papà, mia sorella, i nonni! Senza telefono, senza sentirli, isolata dal mondo! Mai avrei pensato neanche minimamente a quello a cui avrei assistito: i decessi…le bare… Un giorno arrivai in Ospedale per il mio turno di notte, e il mio Caposala mi consegnó un sacco enorme…blu! Proprio così! Mi disse che sarebbe servito in caso di un decesso! Non dimenticherò mai quelle immagini! Mai avrei immaginato di mettere lì dentro corpi. Alla fine del turno ti toglievi l’armatura, facendo attenzione ad ogni minimo gesto perché ogni passaggio che avremmo sbagliato, ci saremmo contagiati. Sei fuori e finalmente respiri. Perché lì dentro, pesavo anche i respiri che facevo. Salivo in macchina.. Ma prima di mettere in moto per tornare alla mia vita, mi fermavo, solo un momento, per lasciare che la tensione mi abbandonasse. E lì, immancabilmente, realizzavo di avere paura. Sì, la fine del turno coincideva col senso di paura. La prima chiamata che facevo era a Gabriele, per avvisarlo che stavo tornando a casa, e poi finalmente chiamavo la mia famiglia, minuti e minuti al telefono, anche se i minuti non azzeravano i km che ci dividevano, ma una loro semplice parola bastava a tranquillizzarmi! Una volta arrivata casa, mi facevo una doccia bollente per lavare via lo sporco, la fatica, le lacrime. Ad aspettarmi c’era lui, Gabriele! Ad Agosto ci saremmo dovuti sposare, ma abbiamo dovuto rimandare! Gabriele era lì, mi guardava, avevo i solchi sul viso, gli occhi lucidi e lo sguardo velato da un’ombra ineffabile, ma mi ascoltava! Avevo un filo di voce, ma mi guardava con lo stesso sguardo con cui da bambina guardavo i miei nonni quando mi raccontavano della guerra! Anche questa, a ben guardare, è stata una guerra, una guerra contro un nemico invisibile. Dovevo far fronte alla mia vita, e proteggere me stessa. I mesi della quarantena per me sono quasi volati in questo “uragano”e durante le poche ore di pausa, tra un turno e l’altro, cadevo in un coma profondo! Poi man mano i pazienti diminuivano,la quasi normalità stava tornando e il 3 Giugno, finalmente la parola “ casa…famiglia “ era diventato possibile! Oggi, a distanza di 6 mesi, sto tornando a L’Aquila: non mi sembra vero, posso finalmente riabbracciare tutti i miei cari. Credo di aver affrontato fin troppe battaglie per la mia età: il terremoto a L’Aquila e ora il Covid! Tra una disgrazia e l’altra però non ho mai smesso di ringraziare Dio per avermi donato la salute, sempre, a me e tutti i miei cari. E spero solo che da questo momento in poi, la vita mi riservi solo cose belle! Colgo l’occasione per ringraziare i miei coordinatori che mi hanno regalato ogni giorno, nonostante il periodo che stavamo affrontando, la voglia e la forza di affrontare le giornate! I miei colleghi, una equipe meravigliosa, mi ha dato l’opportunità di confrontarmi e lavorare con colleghi speciali, attimi intensi, vissuti tra sorrisi, lacrime, urgenze: in particolar modo ringrazio Giulia, compagna di avventura e soprattutto la mia spalla destra! Persone che porteró per sempre nel cuore! Ringrazio i miei genitori che hanno sempre creduto in me, e che tra poche ore potrò riabbracciare: i miei nonni, mia sorella, che con le sue mille preoccupazioni mi ha sempre sostenuto; e a Gabriele… quante volte ti ho detto che non ce la facevo, e tu mi davi 1000 motivi per lottare… senza te ora non sarei qui! Grazie, Fabiola
Riproduzione riservata