
La prima vera udienza si è tenuta oggi, 24 giugno 2025, al Tribunale di Avezzano, dopo mesi di ritardi dovuti a un errore procedurale legato all’applicazione della riforma Cartabia. Un ritardo che ha ferito ancora di più chi, in questi due anni, non ha mai smesso di chiedere giustizia per quella che non è solo la morte di un animale, ma la perdita di un simbolo di biodiversità. Amarena non era un’orsa qualsiasi. Era una femmina adulta, in età riproduttiva, pacifica, mai aggressiva verso l’uomo, conosciuta e amata da molti cittadini e dagli operatori ambientali. Un esemplare preziosissimo dell’orso bruno marsicano, una sottospecie unica al mondo che sopravvive con appena una sessantina di individui tra Abruzzo, Lazio e Molise. Leobruni ha ammesso il gesto, sostenendo di essersi sentito minacciato. Ma le indagini hanno chiarito che Amarena non costituiva alcun pericolo. Era lontana dalle persone, non mostrava atteggiamenti aggressivi, eppure è stata uccisa. A costituirsi parte civile sono stati il WWF Italia, il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, la Regione Abruzzo, il Comune di San Benedetto dei Marsi e molte associazioni ambientaliste. Tutti uniti nella richiesta di una condanna esemplare.
“Chi uccide un animale protetto non può farla franca – ha dichiarato il WWF –. Ci aspettiamo un verdetto che sia un monito per chi pensa di poter agire impunemente contro la fauna selvatica.”
Secondo Filomena Ricci, delegata WWF per l’Abruzzo, “l’uccisione di Amarena ha inferto un colpo durissimo alla sopravvivenza dell’intera specie”. Il WWF lavora da anni con il progetto “Orso 2×50”, che mira a raddoppiare la popolazione entro il 2050. Ma simili gesti rischiano di vanificare ogni sforzo. Il caso Amarena ha riportato sotto i riflettori un nodo irrisolto: in Italia uccidere un orso non comporta pene davvero dissuasive. La legge è confusa e contraddittoria. A seconda dell’articolo applicato, si rischia da poche centinaia a poche migliaia di euro di multa, o una pena detentiva minima, spesso non applicata. In alcuni casi, il reato può persino essere estinto con una semplice oblazione. Per questo il WWF chiede da tempo che nei casi più gravi venga applicato l’articolo 452-bis del Codice Penale, che punisce con pene più severe – fino a sei anni di carcere – chi danneggia gravemente la biodiversità o l’ecosistema. Non si tratta solo di punire. Ma di riconoscere che uccidere Amarena significa alterare un intero equilibrio naturale, già fragile, già a rischio. La perdita di una femmina in età fertile è un danno irreparabile per una specie sull’orlo dell’estinzione. A rendere ancora più allarmante la situazione è il contesto legislativo nazionale. Negli ultimi mesi sono state avanzate proposte di legge che indebolirebbero ulteriormente la protezione della fauna, aprendo la strada a forme di caccia più invasive e riducendo le sanzioni per i reati contro gli animali. Il WWF ha lanciato una petizione contro questa “deregolamentazione selvaggia”, già firmata da oltre 60.000 persone, per chiedere una vera inversione di rotta: più tutela per gli animali, pene più dure per chi li uccide.
👉 Firma la petizione
Il processo per Amarena è più di un procedimento giudiziario. È un test per il nostro rapporto con la natura, per la capacità dello Stato di difendere ciò che è fragile, prezioso, e insostituibile. Ora la parola passa al tribunale. Ma l’opinione pubblica, gli ambientalisti, i cittadini che amavano Amarena, chiedono una risposta chiara, forte, inequivocabile. Perché la giustizia, come la natura, non può essere lasciata sola.