

Mentre la guerra imperversa ai confini del Vecchio Continente e (notizia di ieri) anche due giganti d’Oriente quali India e Pakistan si mostrano i denti, da Sulmona riparte ancora una volta quel silenzioso pellegrinaggio civile che è il Freedom Trail – il Sentiero della Libertà.
Quella delle vicende occorse in Valle Peligna tra l’8 settembre 1943 (data dell’Armistizio di Cassibile) e il successivo e rigidissimo inverno del ’43/’44 è una delle pagine più belle della storia della Resistenza. Badate: non solo per la straordinaria umanità dei fatti raccontati, non meno bello è ricostruire come quei fatti vennero a galla e furono raccontati. La mia personale esperienza di studente del Liceo “Fermi” di Sulmona e di giovanissimo socio dell’Associazione che ogni anno muove – con la precisione dell’orologiaio – la gigantesca macchina organizzativa a servizio dei sempre numerosissimi camminatori, è tra le ragioni per le quali – col grande orgoglio del provinciale – mi considero un privilegiato. E come me, chi più chi meno consapevolmente, tutti gli allievi del mio stesso liceo che l’abbiano frequentato dai primi anni ’90 in avanti.
Ma partiamo dalla Storia: ne L’uomo senza qualità, Musil ricorda al lettore che poche cose si conoscono tanto male come i venti o trent’anni che precedono la nostra nascita. Figurarsi per i grandi eventi storici che ci capitano addosso. La rimozione è la prima risposta per affrontare il trauma.
Primo, tra i figli della Valle, ad interessarsi alle vicende dell’occupazione tedesca in Abruzzo, e a ciò che ne seguì, fu uno dei più fulgidi astri del firmamento intellettuale dei peligni: il mai abbastanza compianto Angelo Maria Scalzitti.
Armato della sua penna affilatissima e di una sensibilità umana ed artistica fuori del comune, Scalzitti (della cui prematura scomparsa ricorre quest’anno il cinquantennale – e Dio sa quanto bene faremmo a celebrarlo con i dovuti crismi) si mosse attraverso gli anni ’60 tentando di raccogliere gli sparsi frammenti dei suoi ricordi di bambino e dei racconti familiari, li innestò sulle carte d’archivio che lentamente venivano fuori, rilesse il tutto alla luce delle testimonianze che timidamente si schiusero, solleticate dalla sua curiosità. Ne venne fuori, nel 1970, un romanzo che ha poco o nulla da invidiare alla grande letteratura nazionale su Fascismo / II Guerra Mondiale / Resistenza che è uso propinare ai ragazzi del quinto anno delle scuole superiori: I Tormentati.
Credete ad uno che scherza su tutto fuorché in letteratura: I Tormentati è un autentico capolavoro della letteratura italiana – una storia cruda e umanissima, elegante e violenta, ma – ed è ciò che più conta – tanto densa di fantasia, quanto in bilico sul filo della verità. (Presidi e professori di italiano e storia: vi prego, adottatelo nelle nostre scuole!)
Ma la scrittura del romanzo, per Scalzitti, non fu altro che la primordiale risposta del creativo, dell’intelletto sensibile e umanissimo, alla più cruda barbarie del Secondo Conflitto Mondiale. Dal 1970 in avanti, infatti, quelli che sarebbero stati gli ultimi anni della sua breve vita furono tutti dedicati alla stesura di una pietra miliare della nostra storia locale: Il ’43. L’invasione tedesca in Abruzzo, edito postumo, nel ’75.
Un libro-documento, come Scalzitti stesso lo definisce, in cui c’è già quasi tutto.
Tra il quadro storico e i capitoli dedicati ai singoli protagonisti (da William Di Carlo a Iride Imperoli, da Gilberto Malvestuto a Uys Krige, per far solo qualche nome) spicca il capitolo II: “I civili e i prigionieri”, un elenco di 653 tra singoli individui e famiglie corredato dei nomi di quei prigionieri inglesi fuggiti da Campo78 che dal tale individuo o dalla tale famiglia furono nascosti agli occhi dell’occupante tedesco e, così, salvati.
Dopo il monumentale lavoro di Scalzitti, per altri vent’anni, nulla.
La storia delle nostre terre ci verrà ricordata da Oltremanica: è il Monte San Martino Trust, a metà degli anni ’90, a prendere contatti con Sulmona e trova terreno fertile per una corrispondenza nel corpo docenti del Liceo Scientifico “Fermi”: tra quanti ne ho conosciuti che si siano occupati di questa grande riscoperta ricordo Rosalba Borri, Antonio Bruno Quadraro e Mario Setta. Parte così il lavoro di traduzione di Spaghetti e filo spinato di John Esmond Fox, tradotto dagli studenti del liceo; poi la ricerca di testimonianze di prima mano – ancora una volta protagonisti i ragazzi – porta a quel capolavoro che è E si divisero il pane che non c’era; da ultimo, il Liceo torna a vivere nella grande storia d’Italia: Carlo Azeglio Ciampi, decimo Presidente della Repubblica Italiana, dona alla scuola il suo diario di quella traversata.
È lì che nasce appunto Il Sentiero della libertà.
Il resto, come si suol dire, è storia. Lo è in parte anche quanto ho già scritto ed è difficile trattenersi, per me, nel parlare di queste vicende: la mia guida fu (e in parte è ancora) Antonio Di Fonso, mio professore di italiano e latino. Con lui conobbi Mario Setta come storico ed ex professore, che già conoscevo per altra parte del suo vissuto. E con tantissimi compagni di scuola, sotto l’egida del professor Di Fonso e di Mario Setta abbiamo realizzato uno sproposito di elaborati, progetti, filmati, interviste.
Appartengo, con i miei coetanei, alla terza generazione che ha avuto accesso a questo materiale: Scalzitti e i testimoni diretti, ovunque dispersi, hanno raccolto e sistemato le fonti; ne è nata una bibliografia, che con gli studenti e i docenti del liceo, tra il ’95 e il 2005 si è andata consolidando tra lavori di prima mano, nuove edizioni e traduzioni.
Nei miei anni (2009-2014) ci siamo goduti una biblioteca che non aspettava che di essere divorata.
Abbiamo esplorato e completato i vuoti che ci è parso di trovare nel racconto, nella ricostruzione. Abbiamo imparato a ricercare e acquisire nuova documentazione. Abbiamo intervistato e registrato i testimoni ancora in vita. Abbiamo provato a raccontare il lavoro svolto attraverso internet, i primi blog, i primi social. Creammo le pagine instagram e facebook. Eravamo al liceo e agli inizi di fenomeni che ora sembrano accompagnarci da sempre.
Soprattutto però (e si sarà capito dalla lettura) eravamo pervasi tutto l’anno da una frenetica curiosità, dall’entusiasmo più ingenuo e gioviale di chi si sente parte di qualcosa. I tre giorni del cammino per alcuni di noi erano diventati una forma di devozione religiosa. Ci sentivamo davvero di incarnare le parole di Calamandrei rivolte ai giovani della Società Umanitaria di Milano nel 1955 “Se volete andare in pellegrinaggio, nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano, per riscattare la libertà e la dignità: andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione”.
Altro che col pensiero, noi ci andavamo davvero, con le nostre gambe e sotto ogni capriccio della primavera, pioggia, neve, fango o solleone che dovesse essere.
Ho percorso dieci anni il Sentiero della libertà. Ogni volta che non ho potuto mi sono mangiato le mani per il rimorso. Ho portato amici da ogni dove al Sentiero della libertà. Se lo ricordano tutti e alcuni ci tornano ancora. Quelli con cui ho condiviso il Sentiero della libertà sono amici di una speciale categoria.
Ultimamente ci ho ripensato spesso: Calamandrei disse proprio “pellegrinaggio”.
Non “in visita”, non “in gita a Palazzo Giustiniani a vedere dove De Nicola firmò la Costituzione”, no.
In pellegrinaggio.
Non saprei trovarla una parola migliore. In un tempo come questo, per come va il mondo, con notiziari che davvero fanno pensare di essere nel mezzo della “terza guerra mondiale a pezzi”, come ha detto Papa Francesco, lasciate che ve lo raccomandi come una medicina: andate in pellegrinaggio lungo il sentiero della libertà, riscoprite il valore della libertà, toccatela. Toccate quelle poche pietre che sono l’unico ricordo terreno di un ragazzo di 21 o 23 anni che lì ci ha lasciato le penne per voi, ottant’anni fa. Se non volete che sia lo stesso per un suo coetaneo ucraino o russo, israeliano o palestinese, indiano o pakistano, diventate pellegrini. Pellegrini di libertà.
25 aprile
Pellegrini di libertà
di Antonio de Capite Mancini
Mentre la guerra imperversa ai confini del Vecchio Continente e (notizia di ieri) anche due giganti d’Oriente quali India e Pakistan si mostrano i denti, da Sulmona riparte ancora una volta quel silenzioso pellegrinaggio civile che è il Freedom Trail – il Sentiero della Libertà.
Quella delle vicende occorse in Valle Peligna tra l’8 settembre 1943 (data dell’Armistizio di Cassibile) e il successivo e rigidissimo inverno del ’43/’44 è una delle pagine più belle della storia della Resistenza. Badate: non solo per la straordinaria umanità dei fatti raccontati, non meno bello è ricostruire come quei fatti vennero a galla e furono raccontati. La mia personale esperienza di studente del Liceo “Fermi” di Sulmona e di giovanissimo socio dell’Associazione che ogni anno muove – con la precisione dell’orologiaio – la gigantesca macchina organizzativa a servizio dei sempre numerosissimi camminatori, è tra le ragioni per le quali – col grande orgoglio del provinciale – mi considero un privilegiato. E come me, chi più chi meno consapevolmente, tutti gli allievi del mio stesso liceo che l’abbiano frequentato dai primi anni ’90 in avanti.
Ma partiamo dalla Storia: ne L’uomo senza qualità, Musil ricorda al lettore che poche cose si conoscono tanto male come i venti o trent’anni che precedono la nostra nascita. Figurarsi per i grandi eventi storici che ci capitano addosso. La rimozione è la prima risposta per affrontare il trauma.
Primo, tra i figli della Valle, ad interessarsi alle vicende dell’occupazione tedesca in Abruzzo, e a ciò che ne seguì, fu uno dei più fulgidi astri del firmamento intellettuale dei peligni: il mai abbastanza compianto Angelo Maria Scalzitti.
Armato della sua penna affilatissima e di una sensibilità umana ed artistica fuori del comune, Scalzitti (della cui prematura scomparsa ricorre quest’anno il cinquantennale – e Dio sa quanto bene faremmo a celebrarlo con i dovuti crismi) si mosse attraverso gli anni ’60 tentando di raccogliere gli sparsi frammenti dei suoi ricordi di bambino e dei racconti familiari, li innestò sulle carte d’archivio che lentamente venivano fuori, rilesse il tutto alla luce delle testimonianze che timidamente si schiusero, solleticate dalla sua curiosità. Ne venne fuori, nel 1970, un romanzo che ha poco o nulla da invidiare alla grande letteratura nazionale su Fascismo / II Guerra Mondiale / Resistenza che è uso propinare ai ragazzi del quinto anno delle scuole superiori: I Tormentati.
Credete ad uno che scherza su tutto fuorché in letteratura: I Tormentati è un autentico capolavoro della letteratura italiana – una storia cruda e umanissima, elegante e violenta, ma – ed è ciò che più conta – tanto densa di fantasia, quanto in bilico sul filo della verità. (Presidi e professori di italiano e storia: vi prego, adottatelo nelle nostre scuole!)
Ma la scrittura del romanzo, per Scalzitti, non fu altro che la primordiale risposta del creativo, dell’intelletto sensibile e umanissimo, alla più cruda barbarie del Secondo Conflitto Mondiale. Dal 1970 in avanti, infatti, quelli che sarebbero stati gli ultimi anni della sua breve vita furono tutti dedicati alla stesura di una pietra miliare della nostra storia locale: Il ’43. L’invasione tedesca in Abruzzo, edito postumo, nel ’75.
Un libro-documento, come Scalzitti stesso lo definisce, in cui c’è già quasi tutto.
Tra il quadro storico e i capitoli dedicati ai singoli protagonisti (da William Di Carlo a Iride Imperoli, da Gilberto Malvestuto a Uys Krige, per far solo qualche nome) spicca il capitolo II: “I civili e i prigionieri”, un elenco di 653 tra singoli individui e famiglie corredato dei nomi di quei prigionieri inglesi fuggiti da Campo78 che dal tale individuo o dalla tale famiglia furono nascosti agli occhi dell’occupante tedesco e, così, salvati.
Dopo il monumentale lavoro di Scalzitti, per altri vent’anni, nulla.
La storia delle nostre terre ci verrà ricordata da Oltremanica: è il Monte San Martino Trust, a metà degli anni ’90, a prendere contatti con Sulmona e trova terreno fertile per una corrispondenza nel corpo docenti del Liceo Scientifico “Fermi”: tra quanti ne ho conosciuti che si siano occupati di questa grande riscoperta ricordo Rosalba Borri, Antonio Bruno Quadraro e Mario Setta. Parte così il lavoro di traduzione di Spaghetti e filo spinato di John Esmond Fox, tradotto dagli studenti del liceo; poi la ricerca di testimonianze di prima mano – ancora una volta protagonisti i ragazzi – porta a quel capolavoro che è E si divisero il pane che non c’era; da ultimo, il Liceo torna a vivere nella grande storia d’Italia: Carlo Azeglio Ciampi, decimo Presidente della Repubblica Italiana, dona alla scuola il suo diario di quella traversata.
È lì che nasce appunto Il Sentiero della libertà.
Il resto, come si suol dire, è storia. Lo è in parte anche quanto ho già scritto ed è difficile trattenersi, per me, nel parlare di queste vicende: la mia guida fu (e in parte è ancora) Antonio Di Fonso, mio professore di italiano e latino. Con lui conobbi Mario Setta come storico ed ex professore, che già conoscevo per altra parte del suo vissuto. E con tantissimi compagni di scuola, sotto l’egida del professor Di Fonso e di Mario Setta abbiamo realizzato uno sproposito di elaborati, progetti, filmati, interviste.
Appartengo, con i miei coetanei, alla terza generazione che ha avuto accesso a questo materiale: Scalzitti e i testimoni diretti, ovunque dispersi, hanno raccolto e sistemato le fonti; ne è nata una bibliografia, che con gli studenti e i docenti del liceo, tra il ’95 e il 2005 si è andata consolidando tra lavori di prima mano, nuove edizioni e traduzioni.
Nei miei anni (2009-2014) ci siamo goduti una biblioteca che non aspettava che di essere divorata.
Abbiamo esplorato e completato i vuoti che ci è parso di trovare nel racconto, nella ricostruzione. Abbiamo imparato a ricercare e acquisire nuova documentazione. Abbiamo intervistato e registrato i testimoni ancora in vita. Abbiamo provato a raccontare il lavoro svolto attraverso internet, i primi blog, i primi social. Creammo le pagine instagram e facebook. Eravamo al liceo e agli inizi di fenomeni che ora sembrano accompagnarci da sempre.
Soprattutto però (e si sarà capito dalla lettura) eravamo pervasi tutto l’anno da una frenetica curiosità, dall’entusiasmo più ingenuo e gioviale di chi si sente parte di qualcosa. I tre giorni del cammino per alcuni di noi erano diventati una forma di devozione religiosa. Ci sentivamo davvero di incarnare le parole di Calamandrei rivolte ai giovani della Società Umanitaria di Milano nel 1955 “Se volete andare in pellegrinaggio, nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano, per riscattare la libertà e la dignità: andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione”.
Altro che col pensiero, noi ci andavamo davvero, con le nostre gambe e sotto ogni capriccio della primavera, pioggia, neve, fango o solleone che dovesse essere.
Ho percorso dieci anni il Sentiero della libertà. Ogni volta che non ho potuto mi sono mangiato le mani per il rimorso. Ho portato amici da ogni dove al Sentiero della libertà. Se lo ricordano tutti e alcuni ci tornano ancora. Quelli con cui ho condiviso il Sentiero della libertà sono amici di una speciale categoria.
Ultimamente ci ho ripensato spesso: Calamandrei disse proprio “pellegrinaggio”.
Non “in visita”, non “in gita a Palazzo Giustiniani a vedere dove De Nicola firmò la Costituzione”, no.
In pellegrinaggio.
Non saprei trovarla una parola migliore. In un tempo come questo, per come va il mondo, con notiziari che davvero fanno pensare di essere nel mezzo della “terza guerra mondiale a pezzi”, come ha detto Papa Francesco, lasciate che ve lo raccomandi come una medicina: andate in pellegrinaggio lungo il sentiero della libertà, riscoprite il valore della libertà, toccatela. Toccate quelle poche pietre che sono l’unico ricordo terreno di un ragazzo di 21 o 23 anni che lì ci ha lasciato le penne per voi, ottant’anni fa. Se non volete che sia lo stesso per un suo coetaneo ucraino o russo, israeliano o palestinese, indiano o pakistano, diventate pellegrini. Pellegrini di libertà. Antonio De Capite Mancini