
Per molto tempo l’autismo è stato raccontato attraverso immagini rigide e spesso ingiuste: il genio isolato o, all’opposto, la persona disabile incapace di comunicare. Oggi sappiamo che la realtà è molto più sfumata, complessa e umana. Già nel 1925 la psichiatra infantile Grunya Sukhareva descriveva bambini che mostravano tratti oggi familiari: difficoltà di espressione, sensibilità insolite, passioni intense per interessi specifici. Intuiva anche quello che oggi chiamiamo masking autistico, ovvero il tentativo di nascondere le proprie peculiarità per sentirsi accettati. Ma la sua voce rimase a lungo nell’ombra, offuscata da nomi più noti come Kanner e Asperger. Con il tempo, la ricerca ha mostrato come l’autismo non sia una malattia da curare, ma il risultato di un intreccio di fattori genetici, ambientali e neurologici. Nel cervello autistico le connessioni tra neuroni si organizzano in modo diverso, portando con sé ipersensibilità o iposensibilità agli stimoli, difficoltà di filtrare le informazioni ma anche straordinarie forme di percezione come la sinestesia. Il linguaggio è cambiato: oggi non parliamo più di “malati”, ma di persone nello spettro, con gradi diversi di supporto necessario. Ci sono individui con disabilità intellettiva e altri con quozienti intellettivi superiori alla media. L’autismo dura tutta la vita, ma non significa condanna: significa vivere con un modo diverso di percepire e interagire con il mondo. Negli anni Novanta la sociologa Judy Singer ha coniato il termine “neurodiversità”, includendo non solo l’autismo ma anche ADHD, dislessia, Tourette e altre condizioni. Una rivoluzione di prospettiva: non deficit, ma varianti naturali della mente umana, con difficoltà e risorse specifiche. La sfida allora non è cambiare chi è neurodivergente, ma cambiare il contesto. Le luci al neon troppo forti in un ufficio, i rumori eccessivi di un’aula, le istruzioni vaghe di un ambiente di lavoro non sono un problema “interno” alla persona autistica, ma barriere che la società costruisce senza accorgersene. Rendere i luoghi più accoglienti e flessibili non gioverebbe solo ai neurodivergenti, ma a tutti. È il senso profondo della frase di Temple Grandin, una delle più note voci autistiche nel mondo: “I am different, not less”. Sono diversa, non valgo di meno. Ed è da qui che passa la rivoluzione più autentica: trasformare lo sguardo, e vedere nella differenza non un limite, ma un arricchimento per tutti.









