
Oggi la mia attenzione è ricaduta su un nome, quello di Norma Cossetto. Lo ammetto, non ne conoscevo la storia ma curiosa sono andata a leggerla e alla fine ho pensato: nulla è cambiato e quanto ancora ci vorrà? Ve la propongo con molto piacere.
“Ancora adesso la notte ho gli incubi, al ricordo di come l’abbiamo trovata: mani legate dietro la schiena, il golfino di lana aperto sul petto, i vestiti tirati sopra l’addome. Solo il viso mi sembrava sereno. Sono convinta che l’abbiano gettata giù viva.”
È la voce di Licia Cossetto, sorella di Norma, una studentessa istriana di 23 anni che fu barbaramente uccisa nell’autunno del 1943 dai partigiani jugoslavi, nei pressi della foiba di Villa Surani. Figlia di Giuseppe Cossetto, dirigente locale del Partito Nazionale Fascista e podestà di Visinada, Norma cresce in un contesto profondamente legato alla propria terra e alla cultura italiana dell’Istria. Si diploma al liceo classico “Vittorio Emanuele III” di Gorizia e prosegue gli studi all’Università di Padova, dove frequenta il corso di Lettere e Filosofia, preparando una tesi intitolata Istria rossa, dedicata alla storia e alla geografia del territorio. Dopo l’8 settembre 1943, l’Istria cade in un clima di violenza e vendette politiche. La famiglia Cossetto, già minacciata, viene presa di mira dai partigiani jugoslavi. Il 25 settembre, la casa viene saccheggiata; il giorno seguente Norma è convocata al comando partigiano e invitata ad aderire alla lotta. Al suo rifiuto segue la prigionia: prima nella caserma dei carabinieri di Visignano, poi nella caserma della Guardia di Finanza di Parenzo e infine nella scuola di Antignana, trasformata in carcere. Qui la giovane subisce atroci violenze. Nella notte tra il 4 e 5 ottobre 1943, insieme ad altri prigionieri. Ancora vivi, furono gettati in una foiba nelle vicinanze. Le tre donne presenti nel gruppo subirono nuovamente violenze sessuali sul posto prima di essere gettate a loro volta nella foiba. Secondo una prima ricostruzione la ragazza fu nuovamente violentata e successivamente le furono pugnalati i seni e penetrata nella vagina con un oggetto di legno, rinvenuto sulla salma. In un verbale di interrogatorio reso nel 1945 al comando Alleato Harzarich si riferisce di aver rinvenuto il corpo «con un pezzo di legno ficcato nei genitali». La sua storia è una ferita aperta nella memoria italiana, simbolo delle atrocità commesse contro le donne durante la guerra, quando il corpo femminile diventava campo di battaglia, bersaglio di odio e dominio. Norma era una ragazza che amava lo studio, la terra, la sua Istria. Si preparava a laurearsi all’Università di Padova con una tesi dal titolo Istria rossa, quando venne arrestata dai partigiani jugoslavi. Rifiutò di unirsi al movimento, fu incarcerata, seviziata, infine uccisa.
Il suo volto giovane è diventato, negli anni, emblema di tutte le donne che la guerra ha violato, non solo con le armi, ma con la disumanità.
Ma la storia di Norma non è un episodio isolato. È una testimonianza dolorosa di un secolo in cui la violenza contro le donne, in tempo di guerra come in tempo di pace, ha assunto mille forme: stupri di massa, deportazioni, umiliazioni pubbliche, esclusione, silenzio. Dalla Prima guerra mondiale, quando le donne venivano considerate bottini da violare nei villaggi conquistati, alla Seconda guerra mondiale, con le “donne di conforto” in Asia e le violenze nei territori occupati in Europa, la brutalità si è ripetuta come un copione. E con la fine dei conflitti, la violenza non è scomparsa: ha solo cambiato volto. Non più nelle trincee, ma nelle case, nelle relazioni, nei luoghi di lavoro. Oggi, nel XXI secolo, la guerra è diventata domestica: ogni anno, decine di donne vengono uccise da partner o ex partner; ogni giorno, migliaia subiscono abusi, minacce, controllo, isolamento.
È un conflitto invisibile, combattuto dietro le porte chiuse, alimentato da una cultura che ancora fatica a riconoscere la donna come persona e non come possesso. Eppure, accanto al dolore, c’è anche la resistenza: quella delle donne che parlano, che denunciano, che aiutano le altre. Delle reti, delle educatrici, delle attiviste, dei centri antiviolenza che ogni giorno lottano per trasformare la memoria in cambiamento. Norma Cossetto è una delle tante donne che, nei secoli, hanno subito la violenza come punizione o strumento di potere. Ma conoscerla significa anche dire che non basta la memoria se non si cambia il presente. Perché la violenza sulle donne non è un destino, ma una costruzione sociale. E si può disfare, solo se si guarda in faccia la verità, se si educano le nuove generazioni alla libertà e al rispetto. Oggi, più che mai, serve un impegno collettivo. Perché il corpo di una donna non sia più campo di battaglia, ma spazio di libertà. Perché nessun volto giovane, come quello di Norma, debba più essere ricordato per la violenza subita, ma per la vita, il coraggio e la dignità.









