
Vivian Guzofsky, 88, holds a baby doll at Sunrise Senior Living in Beverly Hills, Calif. Guzofsky, who has Alzheimer's disease, is calm when taking care of the dolls.
La demenza, in tutte le sue forme, toglie pezzo dopo pezzo ciò che ci rende noi stessi: la memoria, l’identità, la capacità di relazionarci. In Italia, sono circa due milioni le persone che vivono con questa condizione. Ma dietro ogni diagnosi, c’è anche una rete silenziosa di affetti, familiari e amici, che affrontano un dolore fatto di piccoli addii quotidiani. Quando le cure farmacologiche mostrano i loro limiti, altre forme di terapia possono rivelarsi preziose. Una tra queste è la cosiddetta doll therapy, o terapia della bambola. Non si tratta di una terapia magica, né tantomeno di un passatempo infantile, ma di uno strumento terapeutico che si è dimostrato capace di portare benefici reali alle persone affette da demenza, soprattutto nelle fasi più avanzate. Tenere in braccio una bambola, cullarla, parlarle: gesti semplici che riattivano memorie profonde. Secondo la psicologa Valentina Molteni, che ha condotto importanti studi su questo approccio, la terapia della bambola stimola il cosiddetto “sistema dell’accudimento“. Questo sistema, presente in ognuno di noi fin dalla nascita, si attiva in situazioni di vulnerabilità e bisogno: ci porta a prenderci cura degli altri, e a sentirci a nostra volta capaci di ricevere aiuto. Per una persona con demenza, riattivare questa dimensione può significare molto. Significa recuperare una parte della propria identità, ritrovare un ruolo attivo, e soprattutto vivere un momento di connessione emotiva. Non si tratta solo di osservazioni empiriche: gli studi scientifici confermano che la doll therapy può ridurre l’agitazione, l’insonnia, i comportamenti problematici e l’apatia, comuni nelle persone con demenza. Le bambole più efficaci non sono quelle realistiche, ma quelle che comunicano emozioni attraverso pochi tratti chiari e semplici, che stimolano la percezione sensoriale più che la razionalità. In alcuni casi, il contatto con la bambola ha portato i pazienti a ricordare nomi del passato, a sorridere, a manifestare affetto. Anche chi non ha avuto figli può sperimentare questi benefici: l’importante non è la storia personale, ma il bisogno universale di connessione e cura. Usare la doll therapy non significa “lasciare una bambola in mano a un malato”. Richiede attenzione, formazione e un approccio strutturato. Solo così può diventare parte della quotidianità e contribuire a creare momenti di serenità, comunicazione e riconoscimento reciproco. Oggi la doll therapy è impiegata anche con robot interattivi e con bambole come Barbie, sebbene non ideate per questo scopo. Le esperienze suggeriscono che anche oggetti legati a memorie positive dell’infanzia possano generare reazioni emotive benefiche. Nel cuore della terapia della bambola c’è un’intuizione fondamentale: i ricordi non sono solo informazioni, sono il luogo in cui abita la nostra identità. Quando la memoria si sfilaccia, è attraverso le emozioni, i gesti e le relazioni che possiamo ancora prenderci cura di ciò che resta. La bambola, in questo, può diventare un ponte tra ciò che è stato e ciò che, nonostante tutto, ancora vive.