Various seashells, plates, cat corals and other marine jewelry souvenirs in the shop

C’è un momento, in ogni viaggio, in cui ci fermiamo davanti a una bancarella, entriamo in un piccolo negozio o raccogliamo un sasso da una spiaggia. È il momento in cui decidiamo di portare via un frammento del nostro altrove. Un oggetto che sembra piccolo, magari kitsch o inutile, ma che ha il potere di farci sentire ancora lì, in quel tempo felice. I souvenir sono molto più che semplici ricordi da scaffale. Sono segni simbolici, carichi di significato personale e culturale. A spiegarlo è la giornalista scientifica Paola Emilia Cicerone, che in un approfondito articolo per Mind racconta perché siamo tanto legati a questi oggetti, e cosa ci rivelano su noi stessi. Secondo lo psicoanalista Giovanni Starace, i souvenir hanno una funzione fondamentale: “presentificano la memoria”, riportano il passato nel presente, costruendo un ponte tra ciò che è stato e ciò che ancora sentiamo vivo. Ci aiutano a mettere ordine nella nostra vita emotiva e a dare un senso al tempo. Non è un caso, spiega la psicoterapeuta Giuliana Proietti, se spesso conserviamo con cura cucchiaini commemorativi, scontrini, conchiglie, magneti, o quel braccialetto comprato al volo in aeroporto. Non è il loro valore estetico o economico a contare, ma ciò che rappresentano per noi: un attimo felice, una relazione, un senso di appartenenza, una conquista personale. E se i gusti variano – gli uomini prediligono oggetti utili, le donne quelli simbolici – il bisogno è universale. «Gli oggetti sono uguali per tutti, ma il loro significato cambia da persona a persona», dice Proietti. Per alcuni è un modo per raccontare la propria identità; per altri, un modo per ricordare chi si è stati in un luogo speciale. Come sottolinea Elisabeth Kuhn, psicologa tedesca che ha studiato a lungo il fenomeno, i souvenir sono spesso una forma di nostalgia attiva e rassicurante. In tempi difficili, guardare un oggetto che ci riporta a un’esperienza felice può avere effetti positivi sulla psiche, stimolare emozioni piacevoli e ridurre ansia e stress. Perfino il cibo, tra i souvenir più amati e condivisi, svolge questa funzione: il gusto e l’odore di un prodotto locale possono riattivare la memoria emotiva, trasformandosi in un gesto di cura verso sé stessi e gli altri. Un dolce tipico regalato, una spezia rara, un vino assaggiato in compagnia: il sapore dell’altrove che diventa intimità domestica. Certo, non tutto è autentico. A volte compriamo oggetti che non appartengono davvero alla cultura locale, ma ne evocano un’immagine stereotipata: una Tour Eiffel prodotta in Cina, un tamburello tunisino fatto a Taiwan. Ma questo, dice Starace, non ne annulla il valore simbolico: conta più ciò che rappresentano per chi li acquista che la loro provenienza reale. E per molti, il souvenir è anche un dono. Un messaggio per chi è rimasto a casa: “ho pensato a te mentre ero felice”. Un modo per condividere, anche solo per un attimo, la luce di un momento vissuto altrove. Poi ci sono gli oggetti che finiscono in fondo a un cassetto. Alcuni perdono significato nel tempo, altri ne acquisiscono uno nuovo quando chi li ha conservati non c’è più. Ma resta il fatto che ciò che scegliamo di portare via da un viaggio dice molto di noi. Della nostra personalità, dei nostri desideri, di come vogliamo raccontarci. Come scrive lo scrittore di viaggi Rolf Potts, autore del saggio Souvenir. Una storia culturale (Il Saggiatore, 2024): “I souvenir raccolti nelle varie fasi della mia vita costituiscono un museo del mio modo di vedere il mondo”. E forse è così anche per tutti noi. I nostri souvenir sono piccoli totem che raccontano chi siamo stati e dove speriamo di tornare. Anche solo per un attimo. Anche solo con lo sguardo.









