
Scorriamo i social e succede sempre: qualcuno ha sbagliato, qualcun altro lo espone al pubblico ludibrio, l’onda cresce. Un ministro beccato con le tasse, l’ambientalista sorpreso con la bistecca, il calciatore miliardario che salta gli allenamenti. La moneta corrente è lo sdegno. E non è un caso: i contenuti intrisi di indignazione si condividono di più, raccolgono commenti, accendono discussioni. A furia di gridare “scandalo!”, però, la parola scandalo si consuma. Eppure, continuiamo. Perché? Una risposta sta più indietro di quanto pensiamo. Nelle società di cacciatori-raccoglitori bisognava scegliere bene con chi passare settimane nello stesso piccolo gruppo. Servivano compagni affidabili, capaci di proteggere e di non approfittarsene. Denunciare chi “sgarrava” era un modo per dire al gruppo: potete fidarvi di me. In altre parole, indignarsi è (anche) un segnale sociale: dichiara i nostri valori, ci accredita come alleati credibili, ci guadagna reputazione. La ricerca sperimentale lo mostra: chi punisce l’imbroglione in un gioco collettivo è poi percepito come più degno di fiducia e, quando si tratta di cooperare, riceve più fiducia degli altri. Il prezzo immediato, farsi dei nemici, può dunque convertirsi in vantaggio a lungo termine. Questo meccanismo arcaico, oggi, ha trovato un megafono. I social diventano casse di risonanza dove l’indignazione si diffonde a valanga e, spesso, impone nuove norme. Pensiamo a #MeToo: in poche ore, milioni di “basta” hanno rotto un’omertà antica e ridefinito il confine tra ciò che è accettabile e ciò che non lo è. I modelli matematici spiegano bene la dinamica: i più motivati aprono la strada, rendono visibile la loro posizione e “spingono” i più tiepidi a schierarsi per non finire isolati. La norma si consolida, anche tra chi avrebbe preferito restare comodo nelle abitudini di prima. C’è poi la dimensione emotiva: condividere indignazione con chi ci è vicino rafforza i legami, ci fa sentire parte di qualcosa. Il rischio, però, è costruire “tribù dello sdegno” dove le cause morali diventano bandiere d’appartenenza più che strumenti di giustizia. È qui che l’indignazione si fa di parte: non reagiamo per principio, ma per compiacere il nostro gruppo. In politica si vede benissimo: patchwork di valori incoerenti, purché “dei nostri”. Allora che fare? Non demonizzare lo sdegno: senza, tante battaglie non avrebbero mai cambiato rotta. Ma domandarsi, prima di postare: questo sdegno serve la causa o serve me? Sto segnalando un valore o sto cercando appartenenza? Sto punendo il comportamento o una persona? E, soprattutto: dopo l’urlo, cosa resta? Una regola più giusta, un atto riparativo, un invito alla responsabilità—oppure solo l’ennesima ondata che si infrange e se ne va? Forse la vera maturità sta qui: trasformare l’indignazione da scintilla a impegno, da badge identitario a lavoro paziente. Non gridare più forte degli altri, ma innescare conseguenze che migliorino la vita di qualcuno. Perché lo sdegno che non diventa cura è solo rumore.









