
Prova a pensarci: qual è il tuo primo ricordo? Magari il primo giorno all’asilo, una caduta in bicicletta, il momento in cui è nato tuo fratello. Ma quasi nessuno racconta qualcosa accaduto prima dei due o tre anni. È come se un velo coprisse la nostra infanzia più tenera. Come mai? Questa curiosa dimenticanza ha un nome: amnesia infantile. Ed è da anni che scienziati e psicologi cercano di capire perché, nonostante i bambini siano capaci di apprendere e memorizzare fin da piccolissimi, non conserviamo alcun ricordo consapevole di quel periodo. Potrà sorprenderti, ma già nei primi giorni di vita i neonati riconoscono il volto della mamma. E dopo poche settimane sorridono di più ai volti familiari. La memoria, quindi, c’è. Ma non è quella autobiografica, cioè la capacità di raccontarsi un evento in prima persona. Esistono diversi tipi di memoria. C’è quella semantica, fatta di nozioni e nomi. Quella procedurale, come imparare ad allacciarsi le scarpe. E poi c’è la memoria autobiografica, quella che costruisce il filo della nostra vita. Negli anni ’80, la psicologa americana Carolyn Rovee-Collier mise a punto un esperimento creativo. Un neonato veniva messo in culla sotto una giostrina. A un certo punto, la sua gamba veniva collegata a un filo che faceva muovere la giostrina ogni volta che scalciava. I piccoli imparavano in fretta il gioco: più calci davano, più la giostrina si muoveva. Un piccolo trionfo personale. E il giorno dopo? Quando venivano riportati nello stesso ambiente, molti bambini ricordavano l’effetto del loro gesto e iniziavano a scalciare di nuovo. Lo stesso valeva per bimbi più grandi con altri giochi, come far partire un trenino tirando una leva. Più crescevano, più a lungo conservavano il ricordo. Se i bambini sono così bravi a memorizzare, perché perdiamo ogni traccia di quei primi anni? Gli studiosi avanzano varie ipotesi, ma non c’è ancora una risposta definitiva. Una spiegazione è che serva una certa consapevolezza di sé per creare veri ricordi autobiografici. Per intenderci: bisogna sapere chi si è, per raccontarsi in una storia. Un famoso test, chiamato rouge test, mostra che solo verso i 18-24 mesi i bambini cominciano a riconoscersi allo specchio. Prima di allora, vedono un altro bimbo. Non “sé stessi”. C’è poi la questione del linguaggio. Non potendo ancora parlare, i bambini non hanno i mezzi per costruire “narrazioni” su ciò che vivono. Senza parole, è difficile fissare un ricordo nella mente. Infine, il cervello stesso è ancora in fase di sviluppo. L’ippocampo, la zona cruciale per la memoria, non è ancora maturo nei primi mesi e anni di vita. Quel che è certo è che le tracce dell’infanzia sono dentro di noi, anche se non ce le raccontiamo. Forse restano come un’impronta emotiva, un’atmosfera, una sensazione. Gli scienziati continuano a indagare, consapevoli che capire come funziona la nostra memoria significa anche comprendere meglio chi siamo.









