
Mal di pancia prima di un esame? Diarrea o stitichezza in vacanza? Se questi episodi sono occasionali, non c’è da preoccuparsi. Ma per milioni di persone in tutto il mondo – in prevalenza donne – quei sintomi sono un compagno costante e invalidante. Si parla in questi casi di sindrome dell’intestino irritabile (IBS), un disturbo cronico che colpisce fino al 10% della popolazione globale. I sintomi più comuni sono dolori addominali, gonfiore, diarrea, stitichezza o alternanza tra le due. Spesso, alla componente fisica si affiancano ansia e depressione. E per decenni, proprio la presenza di sintomi psicologici ha portato a considerare l’IBS una malattia “nella testa”. Oggi, invece, la scienza guarda all’intestino come a un vero e proprio secondo cervello. Il nostro intestino è dotato di un sofisticato sistema nervoso, il sistema nervoso enterico, capace di gestire molte funzioni digestive in autonomia. Ma lavora anche in stretto collegamento con il cervello, attraverso un fitto scambio di segnali chimici e nervosi: è il cosiddetto asse intestino-cervello.
In presenza di stress o emozioni intense, questo sistema può “saltare”: i segnali vengono interpretati come dolore, anche se non ci sono infiammazioni visibili. Ecco perché i pazienti con intestino irritabile percepiscono il dolore prima e più intensamente rispetto ad altri. Le cause dell’IBS sono complesse e multifattoriali. La componente genetica gioca un ruolo importante: chi ha genitori affetti dalla sindrome ha un rischio maggiore di svilupparla. Anche infezioni gastrointestinali, come quelle da virus o batteri (incluso il Covid), possono scatenare la malattia. E non è raro che sintomi compaiano dopo eventi traumatici o periodi prolungati di stress. Una delle piste più promettenti della ricerca riguarda il microbiota intestinale, ovvero l’insieme dei batteri che abitano il nostro intestino. Esperimenti su animali hanno mostrato che trapiantando microbi provenienti da pazienti IBS, anche i ratti sviluppano ipersensibilità intestinale. Questo suggerisce che una disbiosi, ovvero uno squilibrio della flora intestinale, potrebbe essere uno dei fattori scatenanti.
I disturbi psicologici non solo accompagnano la sindrome, ma in alcuni casi la anticipano. Studi mostrano che chi soffre di ansia o depressione ha maggiori probabilità di sviluppare IBS, e viceversa. Anche l’elaborazione del dolore nel cervello dei pazienti IBS risulta alterata: alcune aree, come il talamo e l’insula, sono più attive e sensibili, specialmente sotto stress. Uno dei meccanismi chiave è l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, responsabile della produzione di cortisolo, il cosiddetto “ormone dello stress”. Nei pazienti IBS, l’esposizione prolungata allo stress può alterare il funzionamento dell’intestino, aumentando la sensibilità al dolore e cambiando il ritmo dei movimenti intestinali. Ad oggi non esiste una cura definitiva per la sindrome dell’intestino irritabile. Tuttavia, è possibile gestire i sintomi con approcci personalizzati che integrano farmaci, alimentazione, psicoterapia e, in alcuni casi, ipnosi. Alcuni antidepressivi, somministrati a dosaggi bassi, possono aiutare a modulare la percezione del dolore anche in assenza di depressione. La psicoterapia, soprattutto quella cognitivo-comportamentale, si è dimostrata efficace nel ridurre ansia e migliorare la qualità della vita. Un ruolo chiave, infine, è svolto dalle aspettative del paziente: credere nell’efficacia del trattamento può avere un impatto reale sulla riduzione dei sintomi. La sindrome dell’intestino irritabile è una malattia complessa, ma reale. Richiede un approccio integrato, che superi la vecchia separazione tra mente e corpo. Capire i meccanismi che la scatenano e riconoscere l’importanza dei fattori psicologici è il primo passo per aiutare chi ne soffre a vivere meglio, con trattamenti più umani e meno stigmatizzanti.