
tratto da Le Scienze
Piove anche TFA. Non si vede, non si sente, ma l’acido trifluoroacetico (TFA) cade insieme a pioggia e neve e ormai si ritrova un po’ ovunque: in laghi e fiumi, nelle acque sotterranee, nei raccolti, perfino in birra in bottiglia e nelle urine umane. I monitoraggi raccontano un’unica storia: i livelli sono in aumento. In Germania, negli ultimi quarant’anni, il TFA è cresciuto di 5–10 volte nelle foglie e negli aghi di diverse specie arboree; in Danimarca è stato documentato l’aumento nelle falde; nelle carote di ghiaccio artiche compaiono tracce già dal 1969. La ragione della persistenza è chimica: il legame carbonio-fluoro è tra i più robusti in natura. Per questo il TFA viene spesso considerato il membro più piccolo della grande famiglia dei PFAS, i cosiddetti “inquinanti eterni”. Ma qui iniziano le divisioni.
Rischio minimo o minaccia in crescita? Per l’UNEP, che valuta il TFA dagli anni Novanta, i rischi oggi sono “minimi” (almeno fino al 2100). E i pochi studi tossicologici disponibili indicano che gli attuali livelli ambientali sono migliaia di volte inferiori alle soglie che danno effetti biologici negli animali. Eppure, alcuni Paesi europei spingono per la cautela: nel 2024 le agenzie federali tedesche hanno chiesto all’ECHA di etichettare il TFA come tossico per la riproduzione e come sostanza molto persistente e molto mobile, avviando una consultazione chiusa a luglio 2025. In parallelo, una parte della comunità scientifica europea invita a vietare in blocco i PFAS, includendo anche il TFA, perché l’aumento dei livelli ambientali potrebbe oltrepassare i “limiti planetari”. Altri ricercatori dissentono: il TFA, sostengono, non bioaccumula come altri PFAS, è altamente solubile e viene rapidamente eliminato dall’organismo; per l’EPA statunitense, infatti, non è classificato come PFAS. Da dove arriva. Le fonti sono multiple. C’è l’uso diretto in ricerca e in chimica fine (farmaceutica, agrofarmaci), con possibili rilasci industriali. Ma il capitolo più consistente riguarda i precursori: gas fluorurati di vecchia e nuova generazione (HFC e HFO, come l’HFO-1234yf dei climatizzatori auto) che, degradandosi in atmosfera, si trasformano in TFA; alcuni pesticidi, farmaci (es. fluoxetina) e perfino biocidi usati nei Grandi Laghi che si scindono in TFA nel suolo e nelle acque. Il risultato è un ciclo globale in cui il composto, non degradabile, si accumula soprattutto sulla terraferma.
Tossicità: cosa sappiamo e cosa no. I test storici indicano bassa tossicità acuta; studi più recenti (commissionati per gli obblighi REACH) hanno rilevato, a dosi molto elevate in ratti e conigli, riduzione di peso fetale e malformazioni oculari, dati oggi usati dai proponenti delle nuove etichettature di pericolo. In vitro e in modelli animali emergono segnali biologici (per esempio su metabolismo lipidico nei topi), ma mancano dati umani e soprattutto studi cronici a basse dosi coerenti con l’esposizione ambientale reale. Sul fronte ecosistemi, alle concentrazioni tipiche non si osservano impatti robusti in ambienti d’acqua dolce, ma alcune piante trattengono il TFA (non evapora) e studi sperimentali suggeriscono che esposizioni prolungate possano influenzare crescita, pH del suolo e decomposizione della lettiera, con effetti a catena sui nutrienti. È il classico territorio dell’incertezza: “non sappiamo ciò che non sappiamo”.
Regole e ricadute industriali. Regolamentare il TFA avrebbe impatti significativi su refrigerazione, farmaceutica e agrochimica. Alcuni Stati hanno iniziato a muoversi: linee guida su valori nell’acqua potabile (Paesi Bassi 2,2 µg/L; Germania 60 µg/L), divieti per pesticidi che lo generano (Danimarca) o regole “use-it-only-if-necessary” (Minnesota dal 2032). In Europa è in valutazione il divieto ampio sui PFAS: se il TFA fosse contato nella somma PFAS per l’acqua potabile (limite UE 0,5 µg/L), molte reti supererebbero la soglia. Sul versante refrigeranti, i modelli indicano che l’HFO-1234yf sarà il contributore principale di TFA a breve; gli esperti propongono una transizione rapida verso alternative dove disponibili (es. in automotive), riservando il “budget” di rischio ai settori senza sostituti immediati.
Che fare ora. I punti fermi sono due: 1) i livelli ambientali di TFA stanno crescendo; 2) gli effetti a lungo termine a basse dosi restano incerti. In questo contesto, molte autorità invocano il principio di precauzione intelligente:
- Misurare meglio (monitoraggi coordinati in acque, suoli, alimenti, biospecimen).
- Tracciare le sorgenti (inventari per precursori industriali, agricoli, farmaceutici; controlli sugli scarichi).
- Ridurre le emissioni evitabili (sostituzione graduale di HFO/HFC dove esistono alternative; criteri ambientali per pesticidi e usi di processo).
- Aggiornare gli standard sull’acqua potabile con approcci basati sul rischio cumulativo.
- Finanziare ricerca su tossicità cronica, ecologia del suolo e piante, tecnologie di rimozione (trattamenti avanzati delle acque).
Non è un allarme rosso, ma non è nemmeno un “non problema”: il TFA è un indicatore del costo nascosto della chimica del fluoro nel quotidiano. Agire ora – misurare, capire, ridurre dove ha senso – è il modo più pragmatico per tenere sotto soglia un rischio che, per definizione, tende ad accumularsi.









