
Ogni mattina Kathy Reagan Young si piazza a venti centimetri da una lampada a raggi ultravioletti. Si mette gli occhiali protettivi, preme un pulsante e resta lì, immobile, con il petto e la schiena esposti a quella luce violacea. Quattro minuti da un lato, quattro dall’altro. Poi la giornata può iniziare. Potrebbe sembrare un gesto strano, ma per lei è diventato routine, quasi un rituale. Perché da quando ha iniziato questa terapia, qualcosa è cambiato. Kathy, americana, vive in Virginia Beach e combatte da oltre quindici anni con la sclerosi multipla, una malattia autoimmune che attacca il sistema nervoso e toglie un pezzo alla volta: energia, equilibrio, parole, lucidità. Eppure, oggi Kathy fa yoga, solleva pesi, guida un podcast, partecipa a riunioni. Soprattutto, non è più costretta a stendersi ogni ora per riposare. «All’inizio non me ne sono nemmeno accorta. Poi mia figlia mi ha chiesto: “Mamma, ma cosa stai prendendo?”», racconta sorridendo. La risposta non è un farmaco nuovo né una terapia sperimentale invasiva, ma qualcosa di sorprendentemente semplice: luce. Nello specifico, luce UV a banda stretta, quella usata da anni per curare la psoriasi e ora sperimentata su chi soffre di malattie autoimmuni. La lampada le è stata fornita da una start-up biomedica, Cytokind, e dopo qualche adattamento tecnico è entrata nella sua quotidianità. I medici che la seguono sono i primi a sorprendersi: il suo punteggio di attività della malattia (MSDA) è sceso a 1 su 10, e da oltre un anno rimane stabile. Non è una guarigione, ma un netto miglioramento. E per chi ha la sclerosi multipla, sentirsi “di nuovo viva” è già moltissimo. Questa storia non è un miracolo isolato. Da anni scienziati e medici osservano che la luce ultravioletta – se dosata con cura – ha il potere di “spegnere” l’infiammazione nel corpo, cioè quella reazione eccessiva del sistema immunitario che è alla base di tante malattie: dalla sclerosi multipla all’artrite reumatoide, dal diabete di tipo 1 alla malattia di Crohn. È nata così una nuova frontiera della medicina: la fotoimmunologia. Un nome complicato per una scoperta potente: quando i raggi UV colpiscono la pelle, attivano una catena di segnali che arriva in tutto il corpo, riducendo l’attività delle cellule immunitarie iperattive. Un esempio? I topi da laboratorio affetti da SM, quando esposti alla luce UV, mostrano una riduzione dei sintomi e un miglioramento generale. E negli esseri umani, chi vive più vicino all’Equatore, dove c’è più sole, ha un rischio molto più basso di sviluppare malattie autoimmuni. Gli studi parlano chiaro: ogni grado di latitudine in più aumenta il rischio di SM. Per anni si è pensato che fosse tutto merito della vitamina D, che viene prodotta dalla pelle con l’esposizione al sole. Ma oggi sappiamo che la storia è più complessa. In laboratorio, infatti, si è visto che la luce UV protegge dalla sclerosi multipla anche senza aumentare la vitamina D. Allora cosa succede esattamente? La pelle, quando riceve la giusta quantità di UV, produce una vera “zuppa molecolare”: endorfine, serotonina, cortisolo, melatonina, ossido nitrico, lumisterolo e molte altre sostanze che regolano infiammazione, stress, umore e risposta immunitaria. Alcune di queste molecole sono ancora sconosciute alla scienza. Insomma, la pelle non è solo un involucro: è un organo attivo, connesso al sistema nervoso e al sistema immunitario. È lì che la luce inizia il suo lavoro. Le ricerche si moltiplicano, i primi studi clinici su pazienti reali mostrano risultati incoraggianti. In uno di questi, su pazienti con forme iniziali di SM, l’uso regolare della lampada UV ha ridotto del 13% i segni della malattia, contro un peggioramento del 14% nel gruppo di controllo. A un anno, solo il 70% dei pazienti trattati ha sviluppato la malattia conclamata, contro il 100% degli altri. Ma la comunità scientifica è prudente. Gli esperti chiedono studi più ampi, rigorosi, indipendenti. Perché i dati finora raccolti sono promettenti, ma non bastano ancora a raccomandare la fototerapia come trattamento standard. Certo è che l’interesse cresce. Anche da parte delle assicurazioni sanitarie, attirate dai costi contenuti: una lampada UV casalinga costa intorno ai 2000 dollari, contro gli 80.000 di un farmaco biologico da prendere a vita. Kaiser Permanente, una delle maggiori strutture sanitarie americane, ha già fornito gratuitamente le lampade a 2200 pazienti con psoriasi. Solo un terzo di loro ha poi avuto bisogno di altri farmaci. Il futuro? Forse sarà una pillola, se si riuscirà a isolare la “molecola aurea” che attiva questi meccanismi. Ma intanto la luce – quella giusta – torna a essere una cura. Una cura antica, economica, sorprendente. E per Kathy Reagan Young, che ogni giorno si sveglia con energia e speranza, è già una piccola rivoluzione.









