
“Non lo so. Non so cosa provo.” Quante volte ci capita di sentirlo o dirlo? Ma per alcune persone, questo non è un momento passeggero: è la loro quotidianità. Vivono in una nebbia emotiva, in cui i sentimenti esistono, ma restano indistinti, senza nome, senza voce. È questa l’alessitimia: una condizione che impedisce di riconoscere e descrivere le proprie emozioni. E che colpisce almeno una persona su dieci. Chi ne soffre non è freddo, né privo di cuore. Semplicemente, non ha gli strumenti per capire e comunicare ciò che sente. È come avere un corpo che urla, ma una mente che non sa tradurre quel grido. Così, l’ansia diventa mal di stomaco, la tristezza si maschera da insonnia, la paura esplode in un attacco di rabbia senza apparente motivo. E a volte, resta solo un senso di vuoto. L’alessitimia non è una malattia mentale, né una diagnosi da manuale. È un tratto, una caratteristica psicologica che può accompagnarsi a disturbi come depressione, disturbi alimentari, autolesionismo o disturbi dello spettro autistico. Oppure può emergere in seguito a un trauma, un lutto, una malattia. Talvolta nasce nell’infanzia, in ambienti dove le emozioni sono ignorate o scoraggiate. Dove piangere è “da deboli”, e le paure non hanno spazio. Ma le emozioni non spariscono. Trovano altre vie: il corpo, la pelle, il cuore. La psicosomatica ce lo insegna da tempo. Dietro una dermatite inspiegabile o una colite cronica può esserci una rabbia non detta, un’ansia che non trova voce. E poi c’è il silenzio nelle relazioni. Il partner che si sente respinto, i figli che non sanno come entrare in contatto. Perché chi è alessitimico spesso appare distaccato, chiuso, inaccessibile. Anche la sessualità può diventare difficile, vissuta con freddezza o come qualcosa di “troppo”, di travolgente e insopportabile. La ricerca scientifica ha iniziato a esplorare questi mondi interiori nascosti. Oggi sappiamo che alcune aree del cervello – come l’insula e l’amigdala – sono meno attive nelle persone alessitimiche. E sappiamo anche che questa difficoltà coinvolge non solo le emozioni, ma anche la percezione del corpo: fame, sete, dolore, desiderio… tutto appare confuso, scollegato, come se mancasse un filo conduttore. Non a caso, l’alessitimia è molto diffusa tra le persone nello spettro autistico. E può contribuire a quella fatica cronica, mentale e fisica, che molte persone neurodivergenti vivono ogni giorno. Una fatica fatta di stress continuo, emozioni trattenute, stimoli troppo intensi o troppo deboli. Anche l’ambiente culturale ha il suo peso. Il mito dell’uomo “duro”, che non piange e non si lamenta, ha generato generazioni di maschi incapaci di nominare ciò che sentono. Lo psicologo Ronald Levant parlava di “alessitimia normativa maschile”: una corazza imposta dalla società, che insegna a reprimere piuttosto che a esprimere. Ma si può imparare. Si può riscoprire un linguaggio delle emozioni, anche da adulti. Con la psicoterapia, certo, ma anche con strumenti semplici e visivi: disegni, ruote delle emozioni, tecniche di mindfulness. Tutto comincia da una domanda: “Come mi sento?”. Una domanda che può sembrare banale, ma per molti è una rivoluzione. Educare all’ascolto emotivo – fin da bambini – è un atto di cura. Significa prevenire sofferenze future, costruire una salute mentale più solida. E significa anche dare voce a chi non l’ha mai avuta, offrire parole dove c’era solo silenzio. In fondo, riconoscere le proprie emozioni è come accendere una luce. All’inizio può far male agli occhi. Ma poi, passo dopo passo, si impara a vedere.









