
Rosa per lei, blu per lui. È il codice-colore che impariamo da bambini, così radicato da farci credere che certe malattie “appartengano” solo a un sesso. E invece no: il cancro al seno riguarda anche gli uomini. In Italia colpisce almeno 500 persone ogni anno, ma resta quasi invisibile, nascosto tra imbarazzi, stereotipi e carenze informative. Stefano Saldarelli lo ha scoperto a 48 anni. Sportivo, attento alla salute, convinto – come molti – che “il seno” non lo riguardasse. Quel nodulo ha cambiato tutto: diagnosi, intervento, cicatrice. E una decisione: parlare, informare, rompere il silenzio. Il suo libro, Il cancro al seno non è solo roba da femmine, è un manifesto contro una narrazione tutta rosa che lascia fuori gli uomini proprio quando avrebbero più bisogno di essere riconosciuti e accompagnati. Il tumore al seno maschile è raro, ma esiste. Anche gli uomini hanno un piccolo tessuto mammario in cui può svilupparsi la malattia: proprio perché nessuno “se l’aspetta”, la diagnosi arriva spesso tardi. Le storie raccolte da associazioni e clinici somigliano tra loro: ci si accorge del problema per caso, dopo un urto al petto, una perdita dal capezzolo, un lieve rigonfiamento. Poi lo shock, la fatica a dirlo, lo stigma: “roba da femmine”, sussurra ancora una cultura che confonde la cura con la debolezza. Eppure, i bisogni sono concreti: informazioni chiare, percorsi accessibili anche agli uomini, linguaggio rispettoso (persino nei foglietti illustrativi dei farmaci), supporto psicologico quando serve. Chi porta una mutazione genetica, come BRCA2, chiede counselling serio; chi si cura con terapie ormonali deve essere informato sugli effetti sulla sessualità e sull’umore. Troppo spesso, invece, gli uomini vengono scambiati per “accompagnatori” nelle sale d’attesa, o si trovano davanti sistemi che non contemplano la loro presenza in un percorso “pensato al femminile”. Negli ultimi anni qualcosa si muove. Alla marea rosa di ottobre si affiancano segni blu: nastri e panchine bicolori, campagne che parlano a tutti, progetti fotografici che restituiscono dignità ai corpi operati. Sono gesti simbolici, certo, ma servono a una cosa essenziale: la consapevolezza. Perché la differenza la fa la diagnosi precoce. E per arrivarci bisogna conoscere i segnali: un nodulo, cambiamenti del capezzolo, secrezioni, arrossamenti persistenti. Se c’è un sospetto, si va dal medico. Punto. C’è anche un’altra verità che vale per tutti, uomini e donne: dopo la diagnosi non si perde la propria identità, la si ricostruisce. Molti raccontano che, superato lo choc, hanno imparato a prendersi più cura di sé, a chiedere aiuto, a vivere con più pienezza. Le emozioni non hanno genere. La tenerezza, meno che mai. Non è un dettaglio: in una delle tante storie, è una carezza della moglie a scoprire quel nodulo “che non doveva essere lì”. Un’onda blu in un oceano rosa non cancella il rosa. Lo completa. Perché la salute è una lingua che si parla in molti colori: l’importante è che nessuno resti fuori dal quadro.









