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SULMONA – Le 21,32 del 7 marzo 2020. Solo chi non ha memoria dimentica troppo in fretta. Tre anni fa il Centro Abruzzo cominciava a fare i conti con l’allora temuto Covid. Sulmona in particolare fece registrare il suo primo caso di Coronavirus in assoluto. Anche se non autoctono. Il primo contagiato era un 60 enne originario di Sulmona ma residente a Roma. Il clima si fece subito incandescente in Valle e il sito della nostra emittente televisiva fu preso d’assalto. Poi esplose il focolaio in Alto Sangro con la prima vittima. Per arrivare anche al contagio autoctono della Valle Peligna. Ad aprire la serie fu l’operaio di una partecipata fino al complicato fronte della clinica che tenne banco per diverse settimane con strascichi giudiziari. Pagine cruente non proprio piacevoli da rispolverare. In tre anni il Covid è arrivato dappertutto: scuole, ospedali, strutture sanitarie, carcere, famiglie, luoghi di svago e di lavoro. Anche da noi che ci abbiamo quasi stretto amicizia per via dei continui aggiornamenti. Senza sosta alcuna. Di giorno e di notte. Per dare un punto di riferimento alla popolazione al fianco dell’autorità sanitaria e delle istituzioni. La domanda, tra un lockdown e una canzone sui balconi, era sempre la stessa: quando finirà questo incubo? Finalmente, dopo tre lunghissimi anni, la pandemia si può consegnare agli annali. Un brutto ricordo e non più un’emergenza. Perchè la convivenza con il Covid si è ormai normalizzata. Il ritorno alla normalità non era scontato se si pensa che lo scorso anno, di questi tempi, lo stato di emergenza era ancora attivo sulla carta. Come siamo diventati e cosa la pandemia ci ha insegnato sarà il tempo a dirlo. Sul piano sanitario poco è cambiato in meglio: pronto soccorso di nuovo intasato, carenza di personale ai massimi storici, medicina territoriale senza filtro. Ma lui, il mostro del Covid, non fa più paura. “Il peggio è alle spalle”- commenta Francesca, nome di fantasia, una delle prime operatici sanitarie a contrarre il virus tre anni fa. “Non si capiva nulla e nessuno sapeva come gestire e aggredire l’infezione. Ricordo le cure artigianali in casa. Il primo lockdown, salvo il più vasto focolaio, aveva risparmiato il territorio, altrimenti non eravamo qui a leggere il passato”. Finalmente ci si può voltare indietro e toccare con mano il percorso che ha portato ad integrare il Covid con la normalità. Lotte, vaccini, polemiche, terapie e qualche rimpianto per le continue restrizioni. Restano le statistiche che lasciano il tempo che trovano. Sono stati oltre 300 mila le positività refertate negli ultimi tre anni nell’area peligno-sangrina. Attualmente contagiati sono 35 di cui 4 in ospedale. Tutti fragili con patologie pregresse. Nell’esercito dei trecento ci sono anche i 154 che non ce l’hanno fatta. A loro va il nostro pensiero più accorato. Con o per il Covid. La ferita resta aperta. Per questo nei prossimi giorni sarà deposto un mazzo di fiori sulla pianta d’ulivo che il Lions fece posizionare in memoria delle vittime nel retro della Basilica Cattedrale di San Panfilo. Va avanti il long Covid non solo sul piano fisico ma anche sociale ed emotivo. Il conto, purtroppo, appare ancora parziale per gli effetti di un’emergenza senza precedenti che ha messo in luce, in taluni casi, le falle del sistema, isolando chi era già solo. La speranza è che il ritorno all’abbraccio e alla stretta di mano divenga un modo concreto per rimuovere tutte le distanze. Anche quelle legate all’indifferenza e alle fazioni che lacerano le comunità.

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