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Ne soffrono circa 200 milioni di persone nelle zone più povere del mondo e i suoi effetti sono così gravi e diffusi che la schistosomiasi è considerata seconda solo alla malaria tra le malattie parassitarie che avvengono per via transcutanea tramite il contatto con acque dolci contaminate (bagni o immersioni). I microrganismi infettano il sistema vascolare del sistema gastrointestinale o genitourinario. I sintomi acuti consistono in dermatite, seguita diverse settimane più tardi da febbre, brividi, nausea, dolori addominali, diarrea, malessere, mialgie. I sintomi cronici variano a seconda delle specie ma comprendono diarrea con secrezioni ematiche ed ematuria. La diagnosi si basa sull’identificazione delle uova nelle feci, nelle urine o nei campioni bioptici.  A causa dei cambiamenti climatici, la malattia si sta diffondendo in Cina e in Europa. Una nuova speranza per la cura potrebbe essere data dall’oxamnichina. Studi avanzati sul farmaco hanno infatti dimostrato che potrebbe rappresentare l’alternativa al metodo chemioterapico con cui la patologia viene tuttora trattata. Lo studio condotto in collaborazione con ricercatori dell’Università di Illinois e del RUSH University Medical Center di Chicago è stato sovvenzionato dal National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID) dei National Institutes of Health (NIH, US) ed identifica per la prima volta una nuova classe di inibitori della tioredossina glutatione reduttasi, un enzima vitale per lo schistosoma, il patogeno responsabile della schistosomiasi. Uno studio che apre nuove strade per il controllo della malattia e la lotta contro il parassita, contribuendo alla ricerca di terapie più efficaci e mirate. Inoltre, l’identificazione dei suddetti inibitori aprirebbe ad applicazioni ad ampio spettro in quanto altre malattie parassitarie strettamente connesse alla schistosomiasi e di notevole importanza anche in ambito veterinario, come la teniasi e la echinococcosi, potrebbero essere curate con le stesse molecole sviluppate per la schistosomiasi, in quanto questi parassiti condividono con lo schistosoma lo stesso enzima bersagliato. Allo studio, che descrive un nuovo approccio alla cura della malattia, ha partecipato il gruppo di Biologia strutturale, Biochimica e Biologia Molecolare del Dipartimento di Medicina Clinica, Sanità pubblica, Scienze della vita e dell’ambiente dell’Università dell’Aquila: ne fanno parte Francesco Angelucci, Rodolfo Ippoliti e Matteo Ardini, Francesca Fata e Federica Gabriele ed è stato pubblicato di recente sula rivista scientifica ‘Nature Communications’

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